In questi giorni ormai lo stanno dicendo tutti. Oggi è stato il turno anche di Sport Bild. Ma quei quattro gatti che avranno avuto la pazienza di seguire la nostra artigianale rubrica sulle pagine del Sussidiario nelle scorse settimane si accorgeranno che sulla fine della collaborazione fra Fernando Alonso e la Ferrari – o meglio, sul suo allontanamento – eravamo stati facili profeti. Ed anche, a dire il vero, nel fare il nome dei due sostituti che i giornali di oggi presentano come possibili: il probabilissimo-quasi certo arrivo del pluricampione Sebastian Vettel in rotta ormai permanente con la Red Bull e quello, assai meno probabile e forse più legato ad una eventuale rinuncia anche a Kimi Raikkonen, di Jules Bianchi. E non poteva che finire così: Alonso era l’ultimo tassello del team messo in piedi da Luca Cordero di Montezemolo che sta pagando adesso, pezzo dopo pezzo come in un giallo di Agatha Christie, il prezzo per le mancate vittorie, le delusioni e gli errori degli ultimi mesi. Innegabili. Se la rivoluzione–Marchionne sarà funzionale allo scopo – ovvero quello di riportare la Ferrari nel suo habitat naturale ai vertici del motorismo sportivo mondiale – lo diranno il tempo e la pista. Quello che si può dire per adesso è che quanto meno il modo con cui questa rivoluzione è stata avviata lascia perplessi. Fernando Alonso, è vero, non vince un Campionato del Mondo da quasi dieci anni, ma resta uno dei migliori piloti in circolazione, se non il migliore, che sconta il vero, enorme, gigantesco difetto di questa Formula 1 moderna e senz’anima che non molti sottolineano: l’assoluta irrilevanza del pilota nello sviluppo della sua macchina che gli viene “recapitata” ad inizio stagione e ad ogni week-end di gara come se stesse salendo su un giro di autoscontri. Senza che possa testarla, migliorarla, farla propria se non con il ricorso di un sofisticatissimo ma pur sempre artificiale surrogato, il simulatore, che oltretutto finisce per rendere del tutto inutile il contenimento dei costi per le prove che era il primo motivo addotto per la loro limitazione. Fernando Alonso non è il problema della Ferrari. E non se ne andrà per i soldi, come ci faranno credere probabilmente nelle pieghe dei comunicati ufficiali. Se ne andrà perché era arrivato sposando la causa di una squadra e di una azienda che oggi non sente più sue e, soprattutto, perché non vede nel nuovo Reparto Corse capeggiato da quell’enigmatico personaggio che è Marco Mattiacci e nella figura da deus-ex-machina di Sergio Marchionne, presupposti adeguati per il futuro. Fernando ha 33 anni, l’età della piena maturità per un pilota, ma anche quella dove occorre vincere subito perché il tempo – leggi carriera futura – comincia a scarseggiare. Per tutto questo andrà via:
Alla McLaren, probabilmente, dove troverà l’inventiva, la solidità e gli investimenti della Honda. Sia chiaro, non ho nulla contro Sebastian Vettel del quale, anzi, sono un estimatore fin dai suoi esordi con la Toro Rosso. A questo punto, però, mi permetto di dire che se Alonso merita la sfiducia del nuovo establishment di Maranello, come minimo la meriterebbe anche Kimi Raikkonen, lui si vera delusione dell’anno: se voltare pagina si deve, quindi, io auspico una coppia Vettel-Bianchi, giusto mix di esperienza ed entusiasmo, talento e fame di vittorie. La Honda, dunque, spauracchio in vista della nuova stagione: non a caso l’addio ufficiale di Fernando avrà come scenario proprio il paese del Sol Levante, titolare di un appuntamento in calendario spesso al centro di tempestose vicende. Niki Lauda, Ayrton Senna, Alain Prost, Michael Schumacher ma anche Mika Hakkinen, Damon Hill e lo stesso Vettel hanno vissuto nei circuiti del Fuji e di Suzuka snodi importantissimi della propria carriera. E lo vivrà anche Fernando Alonso. Quanto a Marchionne, ha dichiarato che la Ferrari è più importante di qualsiasi singolo. Speriamo che applichi la sua filosofia anche e prima di tutto su sé stesso.