Hamilton, Rosberg, Ricciardo. Tutto come da copione, si potrebbe dire. Un copione che la Formula 1 sembra avere ciclostilato in diverse copie in vista dei suoi ultimi appuntamenti stagionali e che continua a seguire fedelmente. Un copione sportivamente giusto: che Lewis Hamilton fosse un fuoriclasse e Nico Rosberg “solo” un ottimo pilota trovatosi con una bomba per macchina lo avevamo detto da parecchio tempo, ben prima che queste cinque vittorie di fila del pilota inglese mettessero la parola fine alla lotta per il Mondiale. Fine? No, anzi: dimenticavo infatti la “fantastica” regola dei punti doppi nell’ultima gara che potrebbe mettere in discussione un titolo che altrimenti sarebbe già meritatamente assegnato. Sulle orme di Sebastian Vettel nel 2013, anche Lewis ha infilato un filotto di vittorie impressionante che ha sancito, se ancora fosse necessario, la superiorità sua e della sua macchina su tutti gli avversari in questa stagione: decima vittoria (contro le quattro di Rosberg, altro dato eloquente), 24 punti di vantaggio e Campionato in ghiaccio. Daniel Ricciardo, che senza alcun dubbio quest’anno è il miglior pilota sulla piazza insieme ad Hamilton, ha arpionato un grande terzo posto beffando le Williams che sulla carta – e forse anche in pista – erano più attrezzate della sua Red Bull: lo ha fatto con la solita gara perfetta tatticamente e tecnicamente, con i suoi sorpassi puntuali e precisi e la sua capacità di leggere i “momenti” della corsa che, attenzione, è prerogativa di non molti piloti su una pista. Con il suo sorriso contagioso e perfino con i nuovi basettoni alla Fittipaldi con cui si è presentato in Texas è lui l’uomo su cui puntare per rilanciare il futuro della Formula 1, sempre più traballante. Già, perché come ormai capita da un po’ di tempo a questa parte ed è consuetudine dopo il destabilizzante – in tutti i sensi – incidente di Jules Bianchi in Giappone, la pista e quanto vi accade non è stato il principale polo di attenzione. Bernie Ecclestone si aggirava nel paddock negando qualunque presenza di crisi – lo ha fatto anche in diretta, e nemmeno in modo particolarmente cortese, rispondendo all’inviato della RAI che lo incalzava sull’argomento. Ed invece, checché ne dica l’intramontabile Bernie, la crisi è evidente e non è soltanto economica ma soprattutto di immagine, di interesse e di passione della gente. Diciotto macchine al via non sono un bello spettacolo – che potrebbe essere anche assai pericoloso rispetto al tradizionalmente complesso e burrascoso rapporto del circus con gli Stati Uniti, già scottati dalla “famosa” gara di Indianapolis del 2005 con soli sei partenti – e rappresentano un segnale importante: esclusa quella disgraziata gara, non accadeva dal 1969. Sarebbe fuorviante pensare che tale situazione sia dipendente dal dominio della Mercedes: non sarebbe la prima e nemmeno l’ultima volta in cui una vettura si rivelasse superiore alle altre in un Campionato – McLaren, Williams e Ferrari solo per citare tre esempi, hanno conosciuto stagioni dominate allo stesso modo – cosa che non ha mai portato ad una disaffezione degli appassionati. Allora, visto che non amo il disfattismo e che dire che “occorre cambiare” senza dire come non mi sembra elegante, approfitto della scarsa cronaca si cui necessita il Gran Premio degli Stati Uniti per tediarvi con due o tre idee che sarebbe utile, secondo me, che i “boss” della F1 prendessero in considerazione. Non lo faranno, ma almeno avrò la coscienza pulita.
1. Il “capitale umano”: la tecnica (e la tecnologia) sono qualcosa di fantastico ed affascinante. Ma lo sbilanciamento in loro favore rispetto all’equilibrio che storicamente esse hanno avuto con fattore umano è in questa Formula 1 inaccettabile. Un pilota non è più libero di fare nulla: provare la macchina, metterla a punto, scegliere le gomme, spingere a fondo sull’acceleratore perché sennò consuma troppo, sorpassare senza rischio di penalizzazioni, perfino di cambiare marcia senza attendere che il “computer” gli dica quando farlo. Per far ripartire l’interesse del pubblico – la cui passione cova rovente come il fuoco sotto la cenere – occorre ripartire dagli uomini. Dai piloti. Quelli più grandi: Hamilton, Alonso, Vettel, Ricciardo. Questi attirano i grandi sponsor, i grandi interessi e le grandi case automobilistiche che oggi, con rarissime eccezioni, si tengono ben lontane dalla F1. Occorre lasciarli liberi di fare i piloti. Anche di sbagliare.
2. L’alibi del “contenimento dei costi”. Penso che questo sia stato l’errore più grosso dal punto di vista del governo e della Federazione. La scusa del contenimento dei costi ha portato a scelte assurde ed illogiche: l’abolizione delle prove private – che costano molto meno che quelle “comunitarie” in capo al mondo e limitano la proliferazione dei simulatori che a loro volta costano molto più che qualunque prova privata; le nuove “power unit” – se li chiami “motori” ti ritirano il pass per il paddock; il contenimento del numero dei motori utilizzabili – ridicolo, non si è mai vista una cosa del genere – il divieto alla evoluzione dei motori stessi nel corso dell’anno, l’obbligo di schierare due macchine per team, la “standardizzazione” della progettazione della macchina e molto altro. Tutte cose che hanno sortito l’effetto esattamente opposto: aumento vertiginoso dei costi, fuga degli sponsor, crisi delle piccole scuderie sfociata nella scomparsa – probabilmente definitiva – di Marussia e Caterham che altrettanto probabilmente non saranno gli unici casi.
3. I regolamenti assurdi. Esiste nella Federazione una incredibile e febbrile necessità di “normare” qualunque cosa eliminando tutto quello che non è conforme alle linee-guida. Ogni sorpasso, ogni manovra, ogni intervento di un meccanico, ogni spostamento di qualunque elemento deve rispettare una pletora di norme spesso poco chiare e altrettanto poco comprensibili, sia nella loro ratio che nella loro applicazione. Vettel che gira nelle prove di Austin per onor di firma già sapendo di dovere partire dai box per aver cambiato il motore è l’emblema dell’autolesionismo normativo di questa Formula 1. Le norme dovrebbero essere poche, chiare e precise. Non coercitive. Concentrandosi per esempio su comportamenti veramente scorretti in pista e colpendoli in modo puntuale, non andando a contare in qualunque sorpasso quante volte uno ha cambiato traiettoria e se lo ha fatto mettendo due ruote sull’erba.
4. Il buon senso (che nelle menti dei “padroni del vapore” scarseggia). Il caso-Bianchi ne è un esempio. Di fronte ad un incidente del genere Ecclestone ha detto che è “sfortuna” e la prima proposta fatta è quella di prevedere gli abitacoli chiusi, altro snaturamento evidente della F1. Sarebbe come dire che se mi cade in testa un vaso di fiori mentre cammino per strada: 1) è normale che cadano vasi e sono stato sfortunato a centrarne uno; 2) indipendentemente dal perché sia caduto, è il caso che cammini per strada indossando un casco.
5. Ovvero la questione che racchiude tutte le altre: l’automobilismo sportivo è, appunto, uno sport e non uno show-business. Lo spettacolo si crea esaltando l’aspetto sportivo e non creando presupposti artificiosi per creare incertezza e confusione, scambiati per “spettacolo”. Qualche esempio? I punti doppi di Abu Dhabi, il per sorpassare, il cambio gomme obbligatorio, il “test driver” del venerdì e altre baggianate similari.
Scusate se vi ho tediato, ma a qualcuno queste cose dovevo pur dirle. E, anche se non arriveranno sui tavoli che contano, magari sono uno spunto di discussione. Alla prossima. Sperando sempre nel meglio…