Mi perdonerete una digressione rispetto al solito. La mia passione per la Formula 1 ha sempre costituito per mio padre un cruccio. Assolutamente bonario, naturalmente: un uomo che veniva dalla civiltà contadina abituato ad apprezzare tutto della vita non viveva certo la cosa con fastidio. Ma restava il fatto che lui, incallito amante del ciclismo, non nascondesse una punta di dispiacere per non avermi trasmesso questa sua passione che io, non certo per contrapposizione a lui ma per un semplicissimo istinto naturale, avevo invece rivolto ai motori e alle macchine da corsa, conquistato definitivamente a queste da Gilles Villeneuve a fine anni ’70. La cosa era pure acuita dal fatto che, a dispetto della sua antica fede interista, io ero diventato, a scuola, juventino. C’è stato un momento però che questo curioso dualismo ha trovato un punto comune: era il 1994 e quell’anno mio padre, come sempre quando poteva, guardava le tappe del Giro d’Italia. Una domenica, per caso, mi fermai con lui perché attratto dallo schermo che mostrava un italiano gracile come un giunco, scarsicrinito e con una maglia bianca e blu, mangiarsi le montagne, le salite e gli avversari come non si vedeva fare nel ciclismo da anni. Almeno così diceva mio padre. Era Marco Pantani e quella era la tappa di Merano che lo rivelò al mondo. Il giorno dopo trionfò anche sull’Aprica grazie al suo ormai leggendario attacco sul Mortirolo. Fu così che, nonostante il mio sostanziale disinteresse per il ciclismo, cominciai a seguire Pantani anche negli anni successivi, con le sue cadute e le sue risalite e ricordo in effetti la sua doppietta Giro-Tour del come una sorta di omaggio a mio padre, che se ne era andato sei mesi prima. Sarà stata forse quella sua figura tormentata, di uomo che non aveva trovato nemmeno nella vittoria la soddisfazione alla sua sete e quella sua febbre di vita di fronte a tutto, così vicina a quello che immagino bruciasse nel cuore dei piloti che rischiavano la vita sulle piste in quegli anni – nel ’94 era appena morto Ayrton Senna, tra poco saranno vent’anni… – che mi rese così simpatico Pantani. Non voglio qui dirimere l’eterna controversia sulla sua figura, sui suoi errori, sulla triste e logorante vicenda del doping che ha quasi distrutto il ciclismo stesso. Due cose però sono certe in questa vicenda. La prima è che se Pantani ha sbagliato, ha pagato molto più di chiunque altro – vero, Lance? – e questo, al di là della sacrosanta condanna del doping, rimane una evidente ingiustizia. Poteri forti, che forse oggi alla luce di dieci anni di indagini si possono intravedere, lo hanno sportivamente stritolato e, forse, spinto quella sua indole irrequieta e solitaria a cercare riparo in altro, specie in ciò che lo ha ucciso. La seconda evidenza è che nessuno come Pantani, dopo Bartali e Coppi, ha saputo rendere carnalmente popolare il ciclismo come ha fatto lui, almeno in Italia. E questo, leggevo oggi, nonostante avesse vinto in tutto 36 corse in carriera, ovvero meno di quelle che Eddy Merckx vinceva mediamente in un solo anno: una sorprendente analogia con il grande Gilles, amato dalla gente ben al di là delle sue vittorie, capace di far scoccare quella scintilla che nemmeno il più supervincente dei campioni riesce ad evocare automaticamente solo collezionando successi. Un simbolo sportivo che, come direbbe il maestro Nando Sanvito, non può essere spiegato come semplice prodotto dei fattori “sensibili” in gioco. Ci deve essere qualcosa di più.
Qualcosa di profondamente umano come la sua sete di affrontare le salite, il suo attaccare sempre, senza respiro e senza calcoli, il suo affrontare le avversità – perché non è mai stato fortunato nemmeno con incidenti ed infortuni – la sua iconica bandana che toglieva solo quando il tu per tu con la salita diventava una vera e propria lotta personale. Come quel suo vezzo quasi sadico, da ragazzino, di mettersi in coda al gruppo prima di affrontare una salita per il solo gusto di rimontare tutti. Questo è quello che rimane – e che continuerà a rimanere – di Marco Pantani ed il motivo per cui non è un semplice “campione sfortunato”, ma un patrimonio dello sport italiano. E un pezzo dei ricordi personali di ognuno.