Il mondo è strano e spesso ha la memoria assai breve. E forse, in certi casi, è anche meglio così. Comunque, dopo il Gran Premio del Bahrein le voci discordanti rispetto a questa nuova Formula 1 all’insegna del risparmio nei consumi e delle gomme dalla resistenza simile a quella del burro in una padella sul fuoco, si erano sopite dopo una corsa oggettivamente spettacolare come quella in Bahrein e ravvivata dal duello in casa Hamilton-Rosberg. Ora, con il Gran Premio della Cina si è tornati alla normalità: la Mercedes ha dominato senza nemmeno metterci troppo impegno e Lewis Hamilton ha regolato il compagno di squadra che, pur valente pilota, gli rende la distanza in tema di talento che aveva Patrese con Mansell alla Williams, Irvine – nei tempi d’oro – con Schumacher alla Ferrari o, sfogliando il libro d’oro della Formula 1, Cévért con Stewart alla Tyrrell, Ginther con Hill alla BRM, Taruffi con Ascari alla Ferrari. Ovvero strepitosi eccellenti piloti con davanti un fuoriclasse e destinati a recitare la parte di perfetta ed inappuntabile spalla. Eppure nella normalità del suo svolgersi, il Gran Premio della Cina ha dato alcuni spunti interessanti, almeno tre a mio parere che meritano un approfondimento. Il primo si chiama Fernando Alonso. Inutile dire che la Ferrari usciva da una settimana fra le più complicate della sua storia segnate dal doloroso, comunque lo si guardi, divorzio con Stefano Domenicali e dall’arrivo di un nuovo Team Principal tutto da scoprire come Marco Mattiacci, sulla quale ci siamo già espressi e sulla quale è inutile aggiungere altro. Ebbene, il terzo posto di Fernando Alonso conquistato dopo una gara caparbia con un passo gara decisamente migliore di quello nelle prove e alcune eccellenti scelte strategiche del muretto – compreso uno strepitoso cambio gomme in 2.7 secondi – è senza dubbio una grande iniezione di fiducia per un ambiente che rischiava il tracollo psicologico ancora prima che quello tecnico. E’ forse proprio questo quello che aveva capito Stefano Domenicali lasciando il suo incarico: tutti avevano bisogno di una scossa emotiva, di una sorta di campanello di allarme, di una “telefonata notturna” che riportasse al centro dell’attenzione il fatto, forse dimenticato, di essere parte del più straordinario team motoristico che si sia mai visto su una pista, orgoglio di una nazione, carico di storia, trofei e gloria, ma anche di periodi bui dal quale è sempre uscito grazie alla capacità, tutta italiana, di inventare, di innovarsi, cercare soluzioni. E’ forse questo che ha capito Marco Mattiacci che, molto saggiamente e confermando l’impressione di uomo di poche parole e molti fatti che ha dato in questi primi giorni, si è affrettato a dichiarare che ogni progresso da qui ad agosto è merito del lavoro di Stefano Domenicali. Su questo ha perfettamente ragione. O meglio, ha ragione salvo un piccolo particolare: un ragazzo di Oviedo, non molto alto ma incredibilmente tenace, due volte campione del mondo, con un carattere non facile ma con un piede pesante come pochi nella storia delle corse.
Si chiama Fernando Alonso e molto, moltissimo di questo inatteso podio nella terra della Grande Muraglia è farina del suo sacco, merito del suo immenso talento che, fino ad ora, ha sgretolato un osso duro come Kimi Raikkonen. Dato per scontato il fatto che la stagione 2014 abbia preso definitivamente la strada verso Stoccarda, la prima missione di Mattiacci in vista del 2015 è convincere Alonso a restare, convincerlo a resistere alle sirene che lo vorrebbero lontano da un team che non può nascondersi solo dietro al suo blasone immenso per legarlo a sé. Fernando Alonso è il primo, fondamentale mattone su cui costruire il nuovo Reparto Corse di Marco Mattiacci. Secondo tema: Daniel Ricciardo. Perry Mason direbbe che tre indizi fanno una prova. Qui siamo a quattro. Ora il giovane e irriverente australiano è rimasto di nuovo, e questa volta ampiamente sia in gara che in prova, davanti al quattro volte Campione del Mondo Sebastian Vettel, da tutti i suoi detrattori atteso al varco. Ora, io credo veramente che il prode Daniel abbia un talento fuori dal comune che si esplicita non tanto – o non solo – nella sua velocità in pista, ma dall’approccio mentale con cui ha affrontato il salto Toro Rosso-Red Bull e quello, non meno complicato, fra Vergne e Vettel. Ricciardo è il più grosso talento prospettico del circus. Ma, detto questo, ho visto commenti poco lusinghieri su un formidabile pilota come Seb Vettel che ha vinto come nessuno mai prima di lui in poco più di quattro anni e che sta vivendo – finalmente, dico io – un momento di appannamento con il quale ci rivela di essere – vivaddio – anch’egli umano e non solo una macchina inanellatrice di giri al comando. Questo è essere un pilota: vincere, perdere, trovarsi bene o male con una macchina, subire dei cambiamenti, smarrirsi e ritrovarsi. Lo hanno fatto prima di lui Clark, Lauda, Mansell, Prost e Senna. Perfino Schumi e più di una volta nella sua carriera. Ora succede a Seb: sarà il punto sul quale il suo talento salterà ancora un ulteriore “slot”, si consoliderà ancora di più. Dicevano gli indiani: non vendete la pelle dell’orso prima di averlo catturato. Io seguirei il loro consiglio. Terzo tema: la nuova Formula Uno. Certo, il Gran Premio del Bahrein è stato fra i più spettacolari degli ultimi anni. Nessuno lo ha negato, noi per primi. Ma paradossalmente ha confermato le perplessità sulle scelte di fondo che animano i Grandi Burattinai del circus, Jean Todt e – checché i media si sforzino a dirci il contrario – Bernie Ecclestone.
Sakhir ci ha confermato che solo i grandi duelli esaltano il pubblico: lo scontro Hamilton-Rosberg ha riportato le menti di tutti alle sportellate fra Senna e Prost o al duello fratricida fra Villeneuve e Pironi a Imola ’82 o quello di Mansell e Piquet lungo la stagione ’86. Non sono i regolamento complicati o l’aumento di fattore “caso” – che poi ogni anni si rivela puntualmente una chimera – a fare spettacolo. La Formula 1 deve puntare sul fascino degli uomini e delle macchine – un binomio da sempre esplosivo – e fa costantemente esattamente il contrario. La gara di Shanghai, anche in questo senso, ci ha riportato alla normalità, con sorpassi rari e dovuti solo all’incrociarsi quasi casuale di vetture con “velocità di crociera diverse” in fasi tatticamente diverse della loro corsa. Io continuerò a sostenere che questa spersonalizzazione delle corse porterà alla lunga alla inevitabile disaffezione del pubblico e questo sia che continui a vincere la Mercedes sia che ricominci a farlo la Ferrari, la Red Bull, la McLaren o chiunque altro in pista. Una ricetta semplice, ma stranamente poco popolare di questi tempi…