Non è proprio periodo per lo sport italiano che sembra risentire, anche psicologicamente, della depressione che la crisi, abbarbicata sulle nostre spalle come una ragnatela in cui si incoccia uscendo da una porta e da cui non ci si riesce a liberare, porta con sé. Una vera e propria nuvoletta di Fantozzi che fa piovere sulle nostre teste sciagure e disgrazie (sportive, si intende). Abbiamo claudicato nelle Olimpiadi invernali, un tempo terra Mondiale brasiliano, uscendo italianamente contro il non certo insuperabile scoglio del Costa Rica e sospinti nel baratro da un arbitro improponibile – che anche lui curiosamente faceva di secondo nome Moreno – da una conduzione tecnica confusionaria ed incomprensibile, da uno spogliatoio spaccato e disunito e da una pochezza tecnica addirittura imbarazzante anche in giocatori che a livello di Campionato Nazionale fanno il bello e cattivo tempo. Insomma, un vero e proprio melodramma italiano, condito delle immancabili polemiche, delle dimissioni annunciate – ma che tirano in ballo questioni curiosamente extra-tecniche – delle faide di spogliatoio e da quel vago senso di ingiustizia che ci perseguita e ci fa dimenticare l’evidenza dei zero tiri in porta in due partite prodotti dal nostro celebrato attacco. Orbene, sta uscendo dal seminato, direte voi. E’ vero che siamo tutti cittì e che nessuno si nega il piacere di sparare sulla croce rossa quando possibile – così come quello di salire sul carro dei vincitori – ma questa non era una rubrica che parlava di Formula 1? Certo. Ma tra i malesseri ormai persistenti che affliggono lo sport italiano c’è anche quello della Ferrari che sembra quasi imbrigliata in un impasse tecnico che non si può spiegare con la semplice assenza di un Adrian Newey nello staff del Cavallino o nei presunti errori per cui ha pagato Stefano Domenicali. Si tratta di una crisi strana, diversa da quelle cui normalmente ed inevitabilmente si passa quando per sessant’anni si affrontano sfide tecniche, umane e sportive di alto livello. E’ una crisi che potremmo definire della mediocrità, quella stessa che sta psicologicamente e socialmente assorbendo il nostro paese e imponendogli una depressione che è quasi più di identità che economica. Ne sono stati un aspetto evidente, nel loro piccolo, gli appelli al patriottismo di Cesare Prandelli prima della Caporetto con l’Uruguay, che non solo sapevano di ultimo santo a cui votarsi in mancanza di altre idee, ma mettevano il dito su un nervo scoperto. Una sorta di complesso di inferiorità collettivo cui si risente ed in ragione del quale, per esempio, il nostro campionato di calcio è diventato “mediocre” nell’immaginario collettivo tutto in un colpo. Come se Messi e Ronaldo giocassero nel Deportivo Saprissa. Squadra costaricana, per intenderci. Con la Ferrari sembra essere lo stesso: una mediocrità che si trascina, senza apparenti sussulti, senza reazioni che non siano di facciata – come la cacciata di Domenicali – percepite quasi come inevitabili. “Eh, ma noi non abbiamo mica Newey…” Non sono certo state poche le crisi, anche profonde, attraversate da Maranello nella sua ormai leggendaria storia: nel 1962 l’intera squadra si ammutinò letteralmente seguendo Carlo Chiti in disaccordo con Ferrari riguardo alle scelte tecniche da fare. Se ne andarono tecnici e piloti, costringendo il Drake ad una ricostruzione da zero. Fu allora che estrasse dal cilindro Mauro Forghieri, fresco di laurea in ingegneria, e John Surtees che aveva vinto fino ad allora solo con le due ruote. E poi fece lo stesso quando la sfida in ambito sportcar con l’immenso colosso Ford, scottato dal rifiuto di Ferrari di cedergli la sua azienda a metà anni ’60, impegnò a tal punto il reparto corse che la Formula 1 ne uscì penalizzata. Lui cambiò rotta e lasciò le competizioni prototipi, quelle per cui aveva dedicato i primi anni della sua carriera di costruttore, quelli che amava più di ogni altra cosa, più della F.1 stessa. E nel ’75 rivinse il Mondiale. Insomma, le crisi si superano con le decisioni forti, con la capacità di non subire le circostanze, di non considerarle “inevitabili” o “nemiche a priori” come il caldo a Manaus. I momenti di crisi generano normalmente idee più innovative, soluzioni più fresche, opportunità da sfruttare.
Forse sarebbe il caso di piantarla di essere pessimisti e di guardare tutto con la solita lente italiana autoflagellante. E di dire che “i tempi sono cambiati”, “il calcio italiano è mediocre” e la “Formula 1 di oggi non lascia spazi ai recuperi”. Ieri sera ho sentito in un incontro pubblico Giorgio Terruzzi, storica firma del giornalismo automobilistico sportivo, intento a presentare il suo libro su Ayrton Senna Suite 200. Ad un certo punto da pubblico è stata posta una domanda che suonava pressappoco così: “Senna nella F1 di oggi non si sarebbe trovato bene…”. E Teruzzi ha subito ribattuto che non era affatto vero. Senna avrebbe analizzato maniacalmente la situazione ed affrontato ogni singolo problema portandolo a soluzione esattamente come faceva quando i volanti erano rotondi e i cambi delle leve a lato abitacolo. Cambiano i tempi, ma il suo metodo di lavoro, applicato a tecnologie diverse e situazioni apparentemente agli antipodi – lo dice Teruzzi, non io – è lo stesso identico che utilizzava Niki Lauda dieci anni prima, che ha imposto Michael Schumacher dieci anni dopo, che ha portato in alto Valentino Rossi e che permette a Fernando Alonso di essere l’unico pilota, oggi, a riuscire ad aggiungere veramente “del suo” oltre a ciò che gli permette la macchina. Cambiano i tempi, quindi, ma non il talento e il metodo per arrivare a vincere. Forza dunque, nulla è ineluttabile, nemmeno la deriva tecnologica della F1 di oggi, nemmeno lo strapotere Mercedes, nemmeno il pessimismo tutto italiano. E se la gara della svolta fosse la prossima?