L’11 luglio è un giorno speciale. Nel la Nazionale Italiana di calcio vinceva al Santiago Bernabeu di Madrid il suo terzo titolo Mondiale, mentre nel 2010 fu la Spagna a riscrivere la sua storia nello stadio di Johannesburg. In America, l’11 luglio 1914, esattamente cento anni fa, è ricordato come il giorno del debutto nella Major League di baseball di Babe Ruth, uno dei più leggendari sportivi statunitensi della storia. Ebbene, l’11 luglio ha una luce particolare anche per i messicani. In quel giorno del 1971, infatti, la nazione centroamericana perse uno dei più popolari figli della sua terra: si trattava del grande Pedro Rodriguez, straordinario pilota che ha raccolto in Formula 1 meno di quanto il suo incredibile talento eclettico meritasse. Ma Pedro ha una storia unica, tutta da raccontare, perché legata a doppio filo a quella del fratello Ricardo: una vicenda dai contorni leggendari che oggi difficilmente potrebbe ripetersi. In breve, i fatti. Pedro e Ricardo Rodriguez, 18 e 16 anni, figli di un ex-acrobata motociclista e capo della pattuglia motorizzata della polizia di Città del Messico, giunsero in Europa come un vero e proprio tornado nel 1958 e furono uno dei fenomeni più incredibili e stupefacenti che si abbatterono sul mondo dell’automobilismo di quegli anni. Ricardo, il più giovane, era forse dei due quello con il talento più cristallino e naturale: la sua carriera-prodigio fu a dir poco stupefacente. A 14 anni aveva lasciato il ciclismo – specialità in cui era diventato campione messicano di categoria – per correre in auto e a 15 aveva colto la sua prima vittoria in una gara sport a Nassau davanti al fratello, entrambi su una Porsche. Nel 1960, a 18 anni, Ricardo – alla sua terza 24 Ore di Le Mans – giunse secondo con una Ferrari della NART condivisa con André Pilette. I due fratelli giunsero in coppia terzi a Sebring e secondi alla 1000 Km del Nürburgring, vincendo l’anno successivo quest’ultima gara e anche la 1000 Km di Parigi. Enzo Ferrari non rimase certo insensibile al fascino del talento puro di Ricardo e gli affidò una Ferrari di Formula 1 al GP d’Italia 1961. Il diciannovenne messicano portò subito la macchina in prima fila – battendo il futuro Campione del Mondo Phil Hill, Baghetti e Willi Mairesse – e, nonostante il ritiro in gara per un guasto, si guadagnò un contratto per la stagione ’62. Purtroppo in quell’anno la Ferrari sbagliò completamente lo sviluppo della vettura affidandosi alla vecchia “156” del ’61 che non era però più competitiva contro BRM, Lotus e Porsche. Fu così un anno difficile per Ricardo dal punto di vista dei risultati, mitigato solo dalla vittoria nella Targa Florio con Mairesse e Gendebien. Quando a novembre le Ferrari decise di non presentarsi al via del GP fuori campionato del Messico, Ricardo – peraltro piuttosto seccato dalla cosa – rimediò una Lotus della Scuderia Walker, ma durante le prove perse il controllo della vettura schiantandosi contro un muretto e rimanendo ucciso sul colpo. Aveva appena 20 anni. Anche se fu lui il primo dei Rodriguez De La Vega a darsi all’automobilismo a soli 15 anni, Pedro rimase per molto tempo nell’ombra, quasi nascosto dal talento smisurato di suo fratello. Riavutosi dallo shock della morte di Ricardo che lo aveva anche fatto pensare al ritiro, Pedro tornò a correre nel 1963; tuttavia, nonostante una grande vittoria a Daytona con Phil Hill nel ’64 e benché gravitasse già stabilmente nell’orbita delle scuderie Ferrari e Lotus, non ebbe occasioni di correre in Formula 1 se non saltuariamente, di norma per gli appuntamenti in terra americana e con le vetture “di scorta” dei team. La svolta della sua carriera è datata 1967: nel GP del Sudafrica, il 2 gennaio, gli venne offerto un po’ per caso il volante della seconda Cooper ufficiale al fianco di Jochen Rindt al posto di John Surtees che aveva annunciato poco prima e fra la sorpresa generale il suo passaggio alla Honda. Pedro sfruttò al meglio quella inattesa occasione con una sorprendente vittoria che gli valse la conferma nel team e un contratto con la mitica scuderia di John Wyer nel mondiale sportcar. Era fatta. Nel ’68 vinse a Le Mans con Lucien Bianchi su una Ford GT40 e, dopo una negativa parentesi nel ’69 con la Ferrari, nel ’70 raggiunse la definitiva consacrazione: con la in Formula 1 conquistò la sua seconda vittoria, grazie ad una magistrale prestazione a Spa, nel GP del Belgio, alla stupefacente media-record di 241 Km/h sulla distanza; nelle sportcar con la mitica Gulf-Porsche si attestò stabilmente fra i protagonisti assoluti della categoria.

Da ricordare una sua straordinaria vittoria alla 1000Km di Brands Hatch sotto la pioggia battente con cinque giri di vantaggio sul secondo classificato: in quell’occasione Chris Amon, scendendo dalla sua vettura per un cambio di guida, commentò: “Perché qualcuno non dice a Pedro che sta piovendo?”. Nel ’71 formò una sensazionale squadra con Jo Siffert, sia per la BRM in Formula 1 che con la Porsche nelle sportcar: con le “917” vinse in sequenza a Daytona, Spa, Monza e Zeltweg. Pedro amava molto correre e così non fu difficile convincerlo ad accettare l’invito per essere la grande attrazione di un evento Interserie – un campionato minore sportcar che gravitava intorno alla Germania – sul veloce e pericoloso circuito di Norising, dove perse la vita molti anni dopo anche Michele Alboreto. Guidando una Ferrari 512M prestatagli dallo svizzero Herbert Muller, Pedro ebbe un gravissimo incidente causato dall’esplosione di uno pneumatico e rimase ucciso sul colpo. Solo pochi mesi prima della morte del suo storico compagno di squadra e amico Jo Siffert a Brands Hatch. Il Messico perse così il suo simbolo sportivo più famoso nel mondo, un vuoto che non è più riuscito interamente a colmare.