Quando Luca Cordero di Montezemolo varcò per la prima volta i leggendari cancelli della fabbrica Ferrari di Maranello era il novembre del , ovvero qualcosa più di quarant’anni fa. Allora era un brillante avvocato rampante di 26 anni, laureatosi a Roma e che lavorava già per un importante studio di New York. La sua professione non gli impediva però di dedicarsi alla sua passione: le corse in automobile. Era un valente pilota di rally, attivo fin dalla fine degli anni ’60 e nel 1971 fu chiamato da Cesare Fiorio a correre nella scuderia ufficiale Lancia, in coppia con Daniele Audetto che poi, nel 1977, per un curioso ricorso del destino, sarebbe stato il suo successore in Ferrari. Furono probabilmente quei trascorsi da pilota a farlo arrivare a conoscere Enzo Ferrari che lo volle come suo assistente e direttore del Reparto Corse, una carica difficile che aveva visto “macinati” negli anni precedenti persone di spessore ed esperienza come Carlo Chiti o Eugenio Dragoni. Fu, per certi versi, una scelta sorprendente: la Ferrari attraversava un momento difficilissimo ed usciva da una stagione disastrosa che l’aveva vista abbandonata dal suo miglior pilota, Jacky Ickx, ed incapace di rendere competitiva una vettura, la , che sembrava essere nata male. Eppure il giovane Montezemolo ne uscì. Certo, fu fortunato: Clay Regazzoni, cavallo di ritorno in Scuderia quell’anno, segnalò a Ferrari un giovane pilota austriaco che era stato suo compagno in BRM e che aveva delle doti da collaudatore e preparatore di vettura a dir poco eccezionali. Si chiamava Niki Lauda. In quattro anni, dal 1974 al 1977, quella squadra rimessa in piedi da Montezemolo – e nel primo anno con la stessa 312 B3 rivista completamente dal genio di Lauda – arrivarono due titoli mondiali piloti e tre costruttori, i primi del lungo palmares di Luca con il Cavallino. Nel 1978 lasciò Maranello ed entrò nei quadri dirigenziali della Fiat ancora una volta con grande successo. E così, fu quasi naturale, una volta che l’azienda era passata sotto il controllo della famiglia Agnelli e dopo la scomparsa di Enzo Ferrari, che fosse lui – appena liberatosi dagli impegni come presidente del comitato organizzatore dei Mondiali di Calcio del 1990 – ad occuparne, di fatto, il posto. Lui che rappresentava la continuità sia dello spirito del Fondatore che di quello, aziendalista, della Fiat. Era il . Da allora sapete come è andata: 14 titoli mondiali fra costruttori e piloti, grazie a protagonisti scelti personalmente da lui come Jean Todt, Michael Schumacher, Kimi Raikkonen, Rory Byrne, Ross Brawn. Sommando gli anni da direttore sportivo, il totale fa 19. Ecco perché, al di là dell’ultimo periodo oggettivamente difficile, al di là degli errori che effettivamente Montezemolo ha commesso – la scelta di Kimi Raikkonen, la perdita di Aldo Costa, l’allontanamento di Stefano Domenicali che ha minato lo spirito della squadra sul piano morale prima ancora che tecnico – un uomo del genere, quello che più di ogni altro dopo Enzo ha segnato la storia della Ferrari, non può essere sollevato dall’incarico in tre giorni, a cuor leggero, con la stessa modalità con cui Zamparini, con rispetto parlando, esonera un allenatore. E’ quello che è successo nella “notte dei lunghi coltelli” che avevamo facilmente previsto pochi giorni fa. Un altro dato: Montezemolo lascia una “azienda” Ferrari fortissima, il cui marchio è il più popolare e riconosciuto del pianeta per la maggior parte degli analisti economici mondiali, che ha consegnato nell’ultimo esercizio un utile di 400 milioni di euro alle casse della Fiat, che ha perfino ridotto la produzione delle proprie auto, a dispetto della domanda di acquisto in costante impennata, per non “abbassare il livello” e non intaccarne il prestigio del suo marchio “imbastardendolo”. Certo, i risultati sportivi, ormai concentrati alla sola Formula 1, sono da tempo negativi. E questo è certamente un aspetto fondante – come peraltro aveva intuito Enzo Ferrari stesso fin dagli albori della fondazione della sua “fabbrica” – del brand Ferrari e dell’alimentazione del suo mito. Ma per tutto questo, per la storia che ha significato, per il danno di immagine che ne è derivato e per il fatto che non risolve nulla delle problematiche della Squadra Corse, questo siluramento – perché di questo si tratta – è stato quanto meno inopportuno, nelle migliori delle ipotesi inutile, forse dannoso. Come l’auto-nomina di Sergio Marchionne, che tutto è tranne qualcuno in grado di risolvere gli unici, veri problemi della Ferrari di oggi:

Quelli sportivi. Vero è che tutti i commentatori si aspettano che l’incarico sia un semplice interim, in attesa di portare a bordo un grosso nome capace di invertire la tendenza: già si vocifera di un clamoroso ritorno di Ross Brawn. Ma lo strappo resta. Quello del primo presidente Ferrari della storia che non sarà a Maranello, ma in continuo spostamento fra l’Olanda e gli Stati Uniti. E la cosa non mancherà di avere altri strascichi da qui al prossimo futuro. Primo fra tutti, l’addio di Fernando Alonso. Non si dimentichi che la Ferrari è rimasta tale anche per la lungimiranza di Giovanni Agnelli che non ne ha fatto un “pezzo di Fiat” quando ne acquisì il controllo, lasciandole la piena autonomia sulle scelte e sulle strategie sportive ed aziendali. Cosa che per esempio non fece con altri marchi dalla storia gloriosa e vincente e che invece si sono affossati nella logica “dell’azienda”: l’Alfa Romeo, che dominava il mondo delle corse e che adesso è rinchiusa nella sua “riserva” di produttrice di auto sportive “ma non troppo”, un po’ giovani ed un po’ kitch o la Lancia, ridotta a “dare il marchio” a vetture costruite da altri o a dedicarsi alle utilitarie. Per non parlare della Maserati. Buona fortuna caro Sergio. Ora hai una bella gatta da pelare ma te la sei cercata. E, per favore, non far colorare di blu-Chrysler le rosse Ferrari…