So che tutti gli auto-opinionisti con velleità di carriera di questi tempi si lanciano in spietati pagelloni, bilanci della stagione e previsioni per il futuro. Ma io, come ormai forse avrete capito, non sono un opinionista e non ho velleità di carriera e così, da semplice appassionato di corse che ha avuto la fortuna di trovare una finestra dove affacciarsi e dire un po’ quello che gli pare sperando che qualcuno lo ascolti, mi ritengo libero di parlare di altro. O meglio, di qualcosa che apparentemente non c’entra, ma che in realtà va al cuore del problema stesso della Formula 1 moderna, mettendone a nudo la spersonalizzazione ed i limiti che stanno causando l’emorragia di passione che si registra negli ultimi tempi. Ebbene, mentre il Mondiale di F1 si chiude nel relativo interesse generale e mentre costruttori e federazione si scornano per trovare una soluzione tecnica e regolamentare in grado di salvare la baracca, il calendario ci porta a ricordare alcuni fantastici personaggi che hanno contribuito seriamente a costruire il fascino ed il mito che la Formula 1 era in grado di suscitare in tempi che ormai sono solo un ricordo lontano. Il 20 novembre di 20 anni fa ci lasciava infatti Giancarlo Baghetti, uno dei più fulgidi talenti della scuola italiana degli anni ’60, protagonista di una stranissima traiettoria di carriera che lo ha portato a vincere, da esordiente, le sue prime tre gare di F1 cui ha partecipato prima di imboccare un repentino quanto inspiegabile viale del tramonto. Il 29 novembre, invece, è un’altra data emblematica nella storia delle corse e, oserei direi, per l’intera storia dello sport, specialmente quello britannico. Graham Hill, straordinario pilota, ingegnere sapiente e preparato, comunicatore anni luce in anticipo rispetto ai suoi tempi, fu senza dubbio un personaggio popolare come nessun altro della sua generazione automobilistica presso il pubblico inglese e gli appassionati di tutto il mondo. Più del talentuoso ma schivo Clark, più del pragmatico ma freddo Surtees o del serioso e poco accomodante Stewart. Di Hill colpiva la personalità affabile e aperta, la brillante capacità oratoria, il suo utilizzo assolutamente moderno dei mezzi di comunicazione di massa che stavano irrompendo sempre più nel mondo dello sport e, ovviamente, la sua capacità di pilota che tuttavia non derivava da un cristallino talento come gli stessi Clark o Stewart, ma dall’applicazione e dal duro lavoro, dalla sagacia tattica e dalla straordinaria capacità di mettere a punto la vettura. Riassumere la sua carriera agonistica in poche righe è impresa difficile. Graham venne “dal nulla”: disputò la sua prima gara nel 1954 con una piccola Cooper e nel ’56, dopo aver conosciuto casualmente Colin Chapman, entrò come meccanico nella scuderia Lotus. Due anni dopo si trovò ad essere pilota ufficiale del Team al suo debutto in Formula 1 nel tortuoso e difficile circuito di Monaco. L’incredibile è che Graham aveva preso la patente tardi, a 24 anni, e aveva scoperto la sua “vocazione” per caso, facendo quattro giri nel corso della scuola-guida sul circuito di Brands Hatch! In diciotto stagioni nella massima serie vinse due Titoli Mondiali: oltre a quello nel ’62 con la , rimane nella storia soprattutto quello straordinario del 1968, quando fu lui a risollevare la squadra Lotus dopo la devastante morte di Jim Clark ad Hockenheim prendendo in mano la gestione del team e dissuadendo Chapman dai suoi propositi di ritiro. Vinse in tutto quattordici Gran Premi, fra cui cinque a Monaco: un record eguagliato solo, anni dopo, da Ayrton Senna. Vinse anche la 500 Miglia di Indianapolis nel 1966 e un gran numero di corse in Formula Due, che all’epoca aveva una popolarità paragonabile a quella della Formula Uno. Nel GP degli Stati Uniti del 1969 subì un grave incidente che gli procurò numerose fratture alle gambe: a quarant’anni suonati, contro ogni previsione fatta dagli addetti ai lavori, non si rassegnò al ritiro e dopo una durissima riabilitazione tornò in pista gareggiando per altre sei stagioni.
Un impegno che fu ampiamente ripagato nel 1972, quando Graham conquistò l’unico grande alloro che mancava al suo mostruoso palmares, la vittoria alla 24 Ore di Le Mans sulla Matra in coppia con Henri Pescarolo, sette anni dopo la sua ultima apparizione nella classicissima francese. Con questo trionfo Hill divenne il primo – e finora unico – pilota della storia delle corse a realizzare la leggendaria “Triple Crown” vincendo il Mondiale di Formula 1, la 24 Ore di Le Mans e la 500 Miglia di Indianapolis. Si ritirò dalle corse nel 1975, solo perché riteneva di doversi concentrare totalmente sulla gestione tecnica e sportiva della sua scuderia che aveva fondato nel 1972 e che infatti, proprio in quell’anno, aveva portato al debuttò la prima monoposto con il suo nome, la Hill “GH1” derivata dalla Lola T371 usata nella stagione precedente. Graham scoprì il grande talento di Tony Brise e ingaggiò come progettista il giovane emergente Andy Smallman. La rivoluzionaria “GH2” preparata per la stagione ’76 debuttò a fine stagione in una serie di sessioni di test sul circuito Paul Ricard, con rilievi cronometrici interessanti. Ma rientrando in Inghilterra, l’aereo su cui tutta la squadra viaggiava, sorpreso dal maltempo, si schiantò nei pressi dell’aeroporto di Elstree. Era il 29 novembre 1975, 40 anni fa. Finì così la vita di Graham Hill, con quella di Brise, Smallman e altri dieci componenti della squadra. Il mondo dell’automobilismo perse uno dei suoi più grandi e longevi protagonisti ed una figura unica e carismatica. Al momento dell’incidente suo figlio Damon aveva appena compiuto quindici anni. E fu forse allora che decise di seguire le orme del padre. E, come sapete, fu una scelta che si rivelò giusta. Ma questa è un’altra storia…