Speranza e sconforto. La Fomula 1 riparte dall’Australia, come tradizione, e come tradizione il Gran Premio della terra dei canguri si risolve in una gara ad eliminazione piuttosto anomala rispetto al resto che ci aspetta nel campionato. Speranza e sconforto, dicevo. Speranza perché il feeling rispetto al pianeta-Ferrari sembra decisamente diverso rispetto al passato. Merito di Sebastian Vettel che, oltre ad essere un grande pilota ha, rispetto ad Alonso, una capacità di “fare squadra” e di farsi benvolere che l’asturiano – a fronte di un talento tecnico forse superiore – non aveva. Magistrale dal punto di vista mediatico la sua risposta in italiano durante l’intervista sul podio condotta da Arnold Schwarzenegger. Merito di Maurizio Arrivabene che sembra essere personaggio di grande spessore, dai giudizi e dagli interventi mai banali, diretti e piuttosto coraggiosi, ben lontani dal linguaggio aziendalista che caratterizzava, per esempio, Marco Mattiacci che sembrava tenere un corso di management ad ogni intervista. Merito perfino di Kimi Raikkonen, sfortunato in corsa, ma che sembra letteralmente un altro pilota rispetto a quello grigio ed anonimo dello scorso anno, ben più a suo agio sulla SF15T molto più vicina al suo modo di guidare che la vettura precedente. Insomma, sensazioni positive suffragate da un terzo posto che era il massimo possibile in pista. Se andiamo a vedere i risultati di Melbourne 2014, scopriremo una Ferrari – quella di Alonso in quel caso – quarta (quinta in pista ma Ricciardo fu squalificato) a 35” dal vincitore di allora Nico Rosberg, praticamente lo stesso identico distacco accusato da Seb nella gara 2015. Due le considerazioni che nascono da questo paragone. La prima: gli avversari di quest’anno – Mercedes a parte ovviamente – sembrano decisamente più deboli. Fatta salva la Williams che però pare battibile, gli altri sono decisamente indietro. Il secondo posto nel Mondiale diventa obiettivo quasi obbligato. Secondo: fu lo sviluppo successivo della vettura a rivelarsi deficitario e a scavare un solco sempre più marcato con le Mercedes, trasformandosi nel naufragio della seconda metà della stagione. Quest’anno perché la stagione possa essere considerata positiva e possa essere una base di partenza adeguata per il raggiungimento del vertice in futuro, il solco dovrà progressivamente ridursi. Speranza si, dunque, ma anche sconforto. Uno sconforto che nasce da due risvolti. Il primo: la Mercedes è ancora lontana, lontanissima da tutti e si appresta – secondo me in modo ancora più schiacciante rispetto allo scorso anno – ad ammazzare il Campionato. Non credo che Lewis Hamilton lascerà che Nico Rosberg lo impensierisca come nell’ultima stagione e tenterà una fuga immediata che lo metta al riparo da sorprese. Gli altri se le vedranno per il terzo posto. Ma se una scuderia dominante non è una novità nella storia della F.1 e fa parte dei “cicli” fisiologici del suo dipanarsi, la tristezza di una gara sostanzialmente di una noia mortale e con 15 vetture in pista resta. Salvo qualche caso “strano” come Imola ’82 o Indianapolis 2005 – ma si trattava di corse boicottate a vario titolo per motivi politici o tecnici non di povertà “effettiva” del parco macchine partente – non si vedeva una cosa simile dal 1969, anno in cui la popolarità della F.1 era messa a dura prova dal Mondiale Marche a cui molte delle grandi case guardavano. Fu l’epopea straordinaria degli anni ’70 a regalare la centralità nel mondo dell’automobilismo sportivo ad una F.1 fatta, allora, di uomini. Oggi il panorama è desolante: scelte regolamentari assurde, crisi economica e vincoli ormai di ogni tipo stanno minando alle fondamenta il circus. E la cosa drammatica è che nessuno sembra occuparsene. Bernie Ecclestone, impegnato al solito a contare i soldi, ha dichiarato non più tardi dell’altro ieri che tutto va benissimo, che la crisi non esiste che lo spettacolo – mai usato la parola sport dalle sue parti – è eccellente. Peccato che di macchine effettive – sul bluff Manor/Marussia dico il mio parere in coda – ce ne siano 18 e di queste almeno 8 non hanno la certezza di arrivare a fine stagione a causa dei costi astronomici imposti dal motore ibrido e dai buchi di bilancio in continuo ed inarrestabile aumento. A proposito: 

La Formula Uno – e l’automobilismo sportivo in genere – è per sua stessa natura una fucina dell’innovazione, un laboratorio a cielo aperto ed itinerante per il mondo. Per cui il problema non è salvaguardare il passato. Ma le grandi innovazioni che ne hanno segnato la storia – dal motore posteriore alle monoscocche, dal concetto di aerodinamica al turbo, dalle sospensioni intelligenti all’elettronica – non sono mai state imposte dal regolamento. E’ una logica assurda che non porta a nulla. Così l’ibrido, come tutto il resto, dovrebbe essere una scelta libera fatta da chi lo ritiene vincente, come è successo ad esempio a Le Mans, e non un obbligo calato dall’alto che impedisce di fatto a chi non sia una “grande casa” a gettarsi nella mischia. Ritornare al passato e alla tradizione non significa avere macchine senza elettronica o motori aspirati, ma limitare i regolamenti a “sponde” all’interno delle quali lasciare libera la creatività di chi progetta. I Chapman, i Ferrari e i Tyrrell nel circus di oggi non potrebbero essere quelli che sono stati. Ultima considerazione sulla pagliacciata-Manor – o Marussia o come diavolo si chiama. La Federazione pare abbia “chiesto spiegazioni” alla scuderia che ha portato macchine e piloti in Australia, allestendo il box come una specie di stand di una fiera e non facendo un metro in pista. Non so che spiegazioni si aspettano gli uomini di Todt. Forse dovrebbero chiedere spiegazioni a sé stessi essendo gli unici che “non si aspettavano” quello che è accaduto. Lo stato economico della Marussia è noto a tutti: se veramente si vuole salvarla, le si lasci lo spazio ed il tempo per riprendersi. Altrimenti si evitino teatrini o stupori fittizi.