L’Italia derelitta, in crisi, che si piange addosso. L’Italia “ufficio complicazioni cose semplici”, come dimostra il grottesco caso Marchisio-Conte. L’Italia dei dubbi e del “nulla di certo”, l’Italia che “non sa più vincere”. L’Italia perfino autolesionista. E poi arrivano gli Dei del Motore e disegnano una domenica come quella di oggi, una domenica che sarà ricordata a lungo. E così, come con Bartali nel Giro di Francia 1948, l’Italia si riscopre per quella che è: creativa, geniale, sorprendente, vincente. E l’italiano torna orgoglioso. Provate a pensare se solo un mesetto fa, nel pieno del dominio delle Mercedes e della dittatura iberica dei vari Marquez, Pedrosa e Lorenzo vi avessero detto che nello spazio di poche ore, distanziate solo da contingenze di fuso orario, la Ferrari avrebbe stravinto come non accadeva da due anni e che Valentino Rossi non solo avrebbe battuto tutti i suoi rivali ma si sarebbe portato sul podio altri due italiani per di più sulla Ducati come Dovizioso e Iannone, nove anni dopo l’ultimo “tris” azzurro nel Motomondiale. Come avreste reagito? Sorridendo, nella migliore delle ipotesi. Ed invece è successo sul serio e, per favore, non svegliateci. Valentino Rossi è un vero e proprio tesoro nazionale, da conservare come un Gronchi Rosa e da portare in giro per il mondo alla faccia dei detrattori dell’Italia. E’ un Expo vivente e che dura dal 1996. La sua capacità di trovare sempre nuove energie, nuovi stimoli e nuove idee per misurarsi con le generazioni di piloti che gli passano accanto è qualcosa di fuori dal comune, un marchio di fabbrica che lo rende un campione unico al di là di come andrà la stagione da qui in avanti. Lascio a penne ben più esperte della mia quella di fare una valutazione tecnica sulla sua gara e su come abbia fatto a mettere a punto una moto che dopo le prove non lo sembrava affatto, manco avesse usato la bacchetta magica del Mago Silvan. Quello che mi limito a raccontare è che l’entusiasmo che si è respirato assistendo alla sua impressionante rimonta, al suo duello con le Ducati e alla sua gioia incontenibile, è stato qualcosa di impagabile. Certo, un entusiasmo che ha trovato terreno fertile e si è stratificato su quello, già gigantesco, che era scaturito da ciò che aveva saputo fare nella mattinata italiana funestata dall’ora legale, Sebastian Vettel. C’era una volta un ragazzo di Heppenheim che era cresciuto con due miti: Michael Schumacher e Michael Jackson. Essendo indeciso se fare il cantante o il pilota da corsa, scelse inizialmente la prima soluzione, ma accorgendosi ben presto di non avere abbastanza talento per la musica, si dedicò alla pista. E menomale. Che non fosse un pilota qualsiasi lo si capì fin dai suoi primi passi nel grande mondo della F.1 e che il colpo di mano con cui Helmut Marko lo soffiò al capo della BMW F1 Mario Theissen – che non si è più ripreso da allora tanto da decidere di chiudere la scuderia – avesse cambiato il corso della storia automobilistica recente, è stato chiaro dopo la sua incredibile vittoria a Monza nel 2008 con la Toro Rosso. I quattro Titoli Mondiali consecutivi colti entro i 26 anni di età lo hanno lanciato nell’Olimpo dei più grandi di sempre. Eppure il suo talento non è stato mai del tutto apprezzato fino in fondo. Si diceva: “Certo, ma lui ha Adrian Newey!”. Un genio che gli ha dato macchine imbattibili. E così molti, dopo una stagione in cui ha mangiato la polvere dell’irriverente e velocissimo compagno di squadra Daniel Ricciardo, gli hanno cantato il deprofundis. Ma Sebastian, lo si è capito solo adesso conoscendolo meglio, è un uomo che non ama rispondere a parole, ma coi fatti. Non ha mai fatto la minima polemica. Lui sapeva che per consacrarsi veramente la strada possibile era una sola: vincere in Ferrari, ripercorrere le strade battute da Michael Schumacher. E qui entra in gioco il secondo fattore della storia, senza il quale anche il primo – Vettel appunto – non avrebbe coronato il suo sogno. Si chiama Sergio Marchionne. E qui non salto sul carro dei vincitori, ma faccio pubblica ammenda. Non sono stato mai tenero con lui e con i sui metodi e continuo a pensare che sa stato assai poco elegante nel suo entrare in scena. Ma devo riconoscere che, semplicemente, aveva ragione lui. Serviva un cambiamento radicale e lui voleva scegliere i suoi uomini. E, ora è facile dirlo, li ha scelti bene. Maurizio Arrivabene, team principal mai banale che ha detto fin dal primo minuto: “piantiamola di ragionare da squadra da secondo posto”. James Allison, il tecnico che più ha segnato la scolta della vettura. E Sebastian Vettel al posto di Fernando Alonso, un azzardo che ha ripagato oltre ogni attesa. Ed in parte questo spiega forse perché Marchionne è presidente della Ferrari ed io invece paso il tempo a scribacchiare per i tre lettori che hanno la pazienza di seguirmi. Il cocktail uscito dalle mani di barman-Marchionne ha avuto lo stesso effetto dirompente dell’arrivo di Messi al Barcellona. E così è nata la gara di oggi, vinta sul campo, senza sfruttare problemi od errori altrui ma dimostrando una superiorità netta e schiacciante sotto tutti i punti di vista: strategia, velocità, affidabilità, gestione e pilota. Anzi, piloti. Perché senza la sfortunata ed incolpevole foratura di Kimi Raikkonen al primo giro, il finlandese tornato a grandi livelli, se la sarebbe giocata con tutti per il podio – se non per vincere – nonostante l’undicesimo posto in griglia. Insomma, ora la Mercedes ha paura: pensava di essere avanti anni luce e di non avere avversari, ha pasticciato la strategia fin dall’inutile sosta al secondo giro e ha subito l’effetto-sorpresa. Ma, come dice saggiamente Maurizio Arrivabene, sedersi sugli allori adesso sarebbe un errore imperdonabile. I tedeschi, feriti, reagiranno ed adesso per la Scuderia del Cavallino Rampante arriva il difficile, ovvero confermarsi. Ma intanto l’imponderabile è accaduto ed il sogno è diventato realtà. Ed è il momento di festeggiare. Grazie a quel simpatico tedesco che parla italiano e che, per fortuna, non ha insistito nel fare il cantante.