La notizia del successo all’esordio di Mick Schumacher nella Formula 4 tedesca per ovvi motivi ha fatto rapidamente il giro del mondo sull’onda emotiva che ancora oggi, ad un anno e mezzo di distanza, provoca negli appassionati il terribile e beffardo incidente di suo padre Michael. E, come un fil rouge che lega figli d’arte, la cosa ha portato sui giornali anche Giuliano Alesi, primogenito del grande Jean, che sta partecipando al medesimo campionato sul suolo francese. Già, i “figli d’arte” sono ormai un tema all’ordine del giorno: Max Vertsappen e Carlos Sainz Junior sono solo gli ultimi esempi della trasmissione genetica del talento di padre in figlio o, se vogliamo, delle facilitazioni all’accesso al mondo delle corse che l’automobilismo sportivo permette a chi ha un nome “pesante”.

Si tratta, in certo modo dello specchio dei tempi, anche se il fenomeno non è certo nuovo ed affonda le radici nell’essenza stessa dell’uomo e dell’atavico rapporto genitori-figli: trasmettere le proprie passioni è un desiderio che ogni padre non può non avere e, per contro, respirare fin da piccoli una certa “aria” non può non influire su un giovane che cresce e cerca una propria strada. Ma al di là delle mie noiose considerazioni sociologiche che prometto di risparmiarvi in futuro, la questione dei figli d’arte nell’automobilismo è interessantissima e si gioca sul filo del rasoio di un interrogativo: chiamarsi Rosberg o Piquet o Brabham è un vantaggio o uno svantaggio? Grandi successi e altrettanto grandi fallimenti non risolvono il dilemma… Un tempo i “figli d’arte” erano casi isolati. Vuoi perché il mestiere di pilota era parecchio pericoloso e non era facile arrivare a costruirsi una famiglia, vuoi perché una intera generazione fu “spazzata via” dagli orrori della guerra, per cui per parecchio tempo, fin verso la fine degli anni ’60, l’età media dei piloti rimase decisamente alta. Naturalmente non mancavano le eccezioni. La più eclatante era senza dubbio personificata da Alberto Ascari, forse il più grande pilota italiano del dopoguerra e sicuramente il più vincente. L’ultimo campione del Mondo di Formula 1 della nostra patria. Suo padre Antonio era un grandissimo pilota dell’epoca dei pionieri: classe 1888, Ascari padre dominò la scena nei primi anni ’20 quando con la sua Alfa Romeo vinse in sequenza il Gran Premio d’Italia nel 1924 e del Belgio nel 1925, ovvero i maggiori appuntamenti motoristici dell’epoca. Morì il 26 luglio 1925 in seguito ad un cruento incidente durante il Gran Premio di Francia che si disputava sul pericoloso circuito di Montlhéry, vicino a Parigi quando Alberto aveva solo sette anni. Fu sulle orme del padre che Alberto si accostò alle corse nel 1940 grazie ad Enzo Ferrari: dopo i due titoli mondiali ’52 e ’53 ed un chiacchieratissimo divorzio con il Cavallino per passare alla “concorrente” Lancia, Alberto Ascari morì esattamente trent’anni dopo suo padre, il 26 maggio 1955, provando “clandestinamente” a Monza una Ferrari sport che era destinata ad Eugenio Castellotti. In quegli anni un altro figlio d’arte si affaccio alla Formula Uno: era Onofre Marimon, ragazzone argentino il cui padre Domingo era stato un grande protagonista del motorismo argentino fra le due guerre, principale e cavalleresco avversario nonché intimo amico di Juan Manuel Fangio nelle popolari e ruspanti Temporada argentine. Proprio sotto l’ala protettiva del “Maestro”, Marimon sbarcò in Europa nella squadra Maserati e rivelò subito un notevole talento tutt’altro che da raccomandato. Ma proprio quando divenne pilota di punta nella casa del Tridente e la sua carriera si apprestava a decollare definitivamente, trovò la morte al Nurburgring, durante le prove ufficiali del Gran Premio di Germania 1954. Marimon fu la prima vittima del Campionato Mondiale di Formula 1, istituito quattro anni prima. A parte questi due casi, il fenomeno del “figlio d’arte” era praticamente assente almeno in Europa, mentre in America cominciavano già a costruirsi le prime “dinastie” di piloti in cui intere famiglie si dedicarono alle corse: dagli Unser ai Bettenhausen ai Foyt fino, più tardi, agli Andretti. Pochissime le eccezioni e più folcloristiche che altro: Bill e Brian Whitehouse, padre e figlio in pista con Cooper e Connaught negli anni ’50 o Jean-Louis Rosier che, in coppia con il ben più noto e talentuoso padre Louis, vinse la 24 Ore di Le Mans nel 1950, anche se la sua partecipazione si limitò agli ultimi giri di corsa dopo che suo padre aveva guidato ininterrottamente per oltre 23 ore e mezza. Per ritrovare un figlio d’arte in F1 occorre fare poi un salto di vent’anni ed arrivare ad Hans-Joachim Stuck, pilota di ottimo livello e dalla lunghissima carriera sconfinata fin negli anni 2000 che totalizzò una ottantina di Gran Premi fra il 1974 ed il 1979 con due podi all’attivo. Suo padre Hans Sr. aveva “sfiorato” la F1 nei primi anni ’50 ormai ultracinquantenne ma era stato uno dei più celebri piloti tedeschi nell’epoca dei pionieri fra le due guerre, protagonista di epici duelli con le vetture ed i piloti italiani soprattutto guidando per la Auto Union. E poi ecco i due casi di maggiore successo fra i figli d’arte: Damon Hill e Jacques Villeneuve. Damon e suo padre Graham detengo un record ineguagliato: sono infatti gli unici ad essere riusciti entrambi a diventare Campioni del Mondo, nel ’62 e ’68 il genitore e nel ’96 il figlio. Graham era un pilota affascinate e carismatico, campione a tutto tondo, grande comunicatore ed uno dei maggiori innovatori del mondo delle corse negli anni ’60. L’unico pilota nella storia ad avere conseguito la Triple Crown, ovvero ad aver conquistato il Mondiale di Formula 1, la 24 Ore di Le Mans e la 500 Miglia di Indianapolis. Dopo vent’anni spesi in pista, creò la sua scuderia nel 1975 ma nel novembre del 1976 morì insieme a tutti i componenti della squadra, compreso il talentuoso giovane pilota Tony Brise, in un incidente aereo mentre rientrava da una sessione invernale di test tenutasi al Paul Ricard. Damon, che aveva 16 anni, si costruì la sua carriera con pazienza, forse sottovalutato ed ancora oggi considerato quasi un “campione per caso”. Era invece un pilota veloce e concreto, forse non talentuoso come Graham ma comunque di grande spessore. Del padre di Jacques Villeneuve, Gilles, c’è poco da dire. E’ forse, con Ayrton Senna, il più grande mito della F1. Vinse molto meno del figlio, Campione del Mondo nel 1997, ma resta ineguagliabile: Jacques crebbe a pane e corse girando con la famiglia – sempre al seguito di Gilles, cani e gatti compresi – con un grande motorhome per le piste di tutto il mondo, giocando nel paddock e vivendo nei box. Ma non volle mai sfruttare il suo nome per farsi strada e non a caso, prima di tornare in Europa, si affermò in America dove la notorietà del padre era più circoscritta. Ma per due esempi “di successo” ve ne sono molti decisamente negativi:

David e Geoff Brabham ebbero esperienza da pilota decisamente fallimentari nei primi anni ’90 nonostante il “codice genetico” trasmesso loro dal grande Jack, straordinario campione-progettista-costruttore degli anni ’50 e ’60. E non andò meglio a Christian Fittipaldi e a Michael Andretti in anni più recenti, anche se quest’ultimo fallì solo in Europa diventando invece grande protagonista sulle orme del padre nelle competizioni a stelle e strisce. Non andò certo meglio a Kazuki Nakajima o a Nelsinho Piquet, per non parlare delle fugaci e meteoriche apparizioni del “nipote d’arte” Bruno Senna o di Markus Winkelhock, figlio di Joachim e nipote di Manfred discreti protagonisti in Formula 1 negli anni ’80. Ed eccoci ai tempi moderni con Nico Rosberg, figlio del grande Keke, che rinverdisce la schiera degli esempi di successo. Senza dimenticare che anche lo sfortunato Jules Bianchi è l’ultimo rampollo di una famiglia di piloti dalla tradizione lunghissima, dato che suo nonno Mauro ed il fratello di quest’ultimo Lucien furono grandi protagonisti nell’automobilismo degli anni ’60. Lucien, in particolare, fu pilota Cooper in F1 e vinse a Le Mans nel 1968, prima di perdere la vita nella 24 Ore dell’anno successivo. Ora Verstappen e Sainz: saranno figli d’arte di successo alla Hill o delusioni alla Brabham?