, il giorno dopo. Immagino che quei quattro lettori che ogni tanto investono – male! – cinque minuti del loro tempo a leggere i miei articoli, si aspettino una analisi patriottico-trionfale – che in effetti mi allettava abbastanza, spinta forse dalla ricorrenza dei Cento Anni dall’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale celebrata a reti unificate da un minuto di silenzio nazionale che mi ha oggettivamente fatto effetto – che parlasse del pacchiano errore della Mercedes e della italica sagacia tattica della Ferrari. Un errore che, a ben guardare, si riduce ad una distrazione da seconda elementare fatta nello svolgere una sottrazione: Vantaggio-Tempo ai box = Margine di sicurezza.
Dovrò però deluderli, perché resisterò a questa tentazione per infilarmi in una riflessione un po’ più profonda. D’accordo: Vettel con una gara da par suo ha artigliato il secondo posto, portando la rossa sul podio prestigioso di Monaco. D’accordo: ho provato come tutti un italico sentimento di malcelato godimento di fronte al crollo della teutonica e proverbiale capacità organizzativa, gestionale e tattica delle Mercedes che hanno fragorosamente e miseramente toppato. D’accordo: l’adrenalina scaricata nelle vene dall’improvviso e violento incidente di Max Verstappen, ha squarciato la sonnacchiosa carovana monegasca che fino a quel momento aveva messo a dura prova le palpebre di milioni di telespettatori nel mondo. D’accordo: Monaco ha sempre un fascino strano, particolare, quasi inspiegabile. D’accordo su tutto. Ma adesso che l’impressione della faccia di Hamilton dopo la corsa, di quella stupita, incredula e fin un po’ imbarazzata di Rosberg, di quella molto poco diplomatica, al solito, di Niki Lauda, adesso che tutto questo si è depositato al suolo lasciando finalmente vedere quello che rimane dietro, penso si possa serenamente riflettere su un fatto, ormai evidente. Monaco è stato uno dei punti più bassi della storia dell’Automobilismo sportivo, un punto di non ritorno, un campanello di allarme che, se non ascoltato – in modo ben più serio che non con le confuse e per certi versi ridicole idee del sedicente “strategy group” della Federazione – finirà per portare questo sport ad un futuro di secondo piano, ad un interesse di nicchia e, forse, alla sua fine. Un giudizio esagerato? Forse, ma lo sostanzio con tre punti cardine. 1) L’annullamento del pilota: l’errore del muretto Mercedes è stato talmente evidente che anche per il telespettatore medio, per il non addetto ai lavori ed il curioso di turno – insomma, l’uomo della strada che annusa un po’ di sport in generale – è sembrato assurdo. Che senso aveva, anche in presenza di un eventuale margine ampio di sicurezza, andare a rischiare un cambio gomme a dieci giri dalla fine quando sei primo, non hai un particolare degrado nelle gomme e, di fatto non rischi nulla? Era evidente a tutti. Tranne che a Lewis Hamilton. Sia chiaro, non ce l’ho affatto con la vittima del furto di ieri, ma mi sembra evidente quale sia il “prototipo” del pilota che questa Formula 1 ha prodotto. Un pilota che esegue gli ordini impartiti con abitudine disperante, che non ci mette mai del suo, nemmeno il minimo ragionamento tattico, strategico o sportivo. Viene guidato in tutto e per tutto: anzi, viene allevato per essere guidato e non farsi domande inutili, per avere tutto sotto controllo grazie al simulatore, alla telemetria, al navigatore che gli dice tutto: quando cambiare marcia, quanto traffico ha in pista, quando frenare (e quanto farlo per non rovinare i freni), quando fermarsi, quando partire. E, badate bene, stiamo parlando di Lewis Hamilton, ovvero uno dei tre talenti più “puri” di questa F1. Vi immaginate la risposta di Gilles Villeneuve o di Ayrton Senna o di Graham Hill o di Jackye Stewart o di Nigel Mansell nel caso “impossibile” in cui da una ipotetica radio – che non avevano – gli avessero detto di fermarsi a cambiare le gomme a dieci giri – dodici minuti circa – dalla fine del Gran Premio di Monaco mentre fossero stati in testa?
2) Le regole assurde: fino al “botto” Verstappen-Grosjean abbiamo visto tre – tre di numero – sorpassi in pista. Tutti dello stesso Verstappen, di cui uno “vero” e due di furbizia. Il quarto lo ha sbagliato e subito è stato bollato come pericoloso dai colleghi e prontamente redarguito e penalizzato dalla Federazione. Poi ce ne sono stati due di Daniel Ricciardo, uno a Raikkonen e uno a Kvyat. Il primo, o il secondo, non si è ben capito, non deve essere piaciuto agli inflessibili giudici di pista che hanno intimato a Daniel di restituire la posizione al compagno di squadra prima del traguardo, con un balletto piuttosto ridicolo e difficilmente comprensibile allo spettatore. E poi c’è il “caso” di Fernando Alonso, reo di non si capisce bene quale scorrettezza ai danni di Nico Hulkenberg nelle prime battute della gara e che è stato misteriosamente punito con cinque secondi di stop-and-go. Comunicazione per i commissari ed i soloni della federazione: invece di inventare idiozie come le ali mobili ed i cambi gomme forzati o di regolamentare il numero di volte che si può cambiare traiettoria prima di una curva, perché non provate a lasciar sorpassare in pace i piloti quando diavolo vogliono? Fare un sorpasso è già di per sé un azzardo: oggi è diventato sconsigliabile. Molto meglio mettersi in coda ed aspettare gli eventi, l’errore altrui, il bullone fissato male ai box o la safety car. Provare un sorpasso “vero” è oggi follia che può balenare solo nella mente inesperta di un ragazzo alle prime armi ancora entusiasta e non assuefatto al grigiore generale. Ma è questione di tempo. Diventerà grande anche lui e “farà il bravo”. 3) La Tecnocrazia ed il caso. Che la Formula 1 sia da sempre un laboratorio tecnologico con uno sguardo al futuro è pacifico. E’ nella sua natura ed anche alla base degli investimenti delle grandi case automobilistiche. Ma la tecnologia non ha mai “guidato” le scelte sportive. Anzi, nella storia delle corse le innovazioni tecnologiche hanno sempre costituito un punto di discontinuità, un “imprevisto” con cui tutti hanno dovuto fare i conti ed evolvere, ricercare, innovare ancora ed ancora di più. E’ stato così su tutto. Da sempre. Al massimo, i regolamenti vigilavano limando gli eccessi, uniformando i parametri e dando le linee-guida in cui progettare, inventare e costruire. Non sono mancate polemiche, scontri e contraddizioni. Anche errori. Ma il punto di partenza per la ricerca tecnologica è sempre stata la creatività, l’intuizione, l’idea. Uomini, insomma: Jano, Ferrari, Chapman, Cooper, Forghieri, Murray, Newey. Citati alla rinfusa. Oggi la tecnologia è imposta per legge, la creatività praticamente nulla, lo spazio di manovra inesistente e l’attrattiva di ciò – per il pubblico e per gli investitori – in picchiata. La Tecnologia è finita, oggi siamo alla tecnocrazia. La dittatura della tecnologia unica, assoluta, dittatoriale. Montecarlo ha mostrato con una lapalissiana evidenza la prima conseguenza di ciò. Le gare di Formula 1 oggi possono essere decise solo da due, immutabili, componenti: il budget di una scuderia e il caso. Non ci sono altri fattori. Lo sport dell’automobile? Un ricordo lontano…