Fino a qualche mese fa avevamo un’immagine di Sebastian Vettel un po’ diversa da quella di oggi. In Red Bull – e visto “da fuori” – sembrava un pilota tutto sommato un po’ freddo, un po’ teutonico, un po’ infastidito dalle difficoltà, imborghesito dalle troppe vittorie apparentemente facili e, diciamocelo, non particolarmente simpatico. Da un punto di vista tecnico piuttosto nutrita era la schiera di chi riteneva i suoi successi essenzialmente merito di Adrian Newey, delle sue macchine e del suo talento progettistico – inconfutabile, ovviamente – più che delle sue capacità di guida, giudicate ottime ma non eccelse.
Per anni, specie in Italia, si è continuato con il refrain secondo cui il pilota più forte fosse Alonso – in Inghilterra Hamilton, ovviamente, perché tutto il mondo è paese – e che Seb, che qualcuno chiamava il Bibitaro Tedesco, vincesse grazie al mezzo superiore e alla presenza di un compagno di squadra non fulmineo: Mark Webber, il cui talento si dovrebbe rivalutare. Certo, tutto questo aveva un fondo di verità. Poi c’è stata la scorsa, travagliata, stagione: la Red Bull e soprattutto la Renault in difficoltà, l’esplosione di Daniel Ricciardo, il dialogo perso fra Seb ed Helmut Marko, il suo grande mentore e, a tutt’oggi, lo scopritore di talenti più geniale che ci sia in F.1 – a Budapest, se avete notato, il podio era monopolizzato dai ragazzi della “cantera” Red Bull, scoperti dal mancato campione austriaco, la cui carriera nascente fu stroncata dalla perdita di un occhio per un sasso scagliato da una vettura che lo precedeva e che gli forò il casco durante il GP di Francia del 1972 –. Un anno segnato dall’dramma di Michael Schumacher, idolo e punto di riferimento di Seb, dalla nascita del suo primo figlio e, poi, dall’incidente di Jules Bianchi in Giappone. Un anno che lo ha cambiato. E così Sebastian Vettel è sbarcato in Ferrari fra lo scetticismo generale ma, forse, con uno spirito nuovo, diverso. Ha scelto come colorazione del casco – da quest’anno finalmente per regolamento non modificabile per la stagione – quella che usava Schumacher quando faceva kart da ragazzino, ai suoi esordi.
Una sorta di segno di rinascita, di nuovo inizio. Ha risposto sul campo a quelli che lo avevano dato per finito e si erano forse dimenticati che il primo, grande, clamoroso trionfo – uno dei più incredibili della storia delle corse – lo aveva colto nel 2008 dominando il Gran Premio d’Italia a Monza con la Toro Rosso, ovvero, con la ex-Minardi, dal primo all’ultimo metro di gara e partendo dalla pole. E quella macchina non era certo disegnata da Newey. Ma non solo. Ha trovato in Ferrari – ed in Italia – il luogo ideale per assecondare questo sua voglia di rivincita. E così, da quest’anno – e la vittoria di Budapest ne ha segnato la consacrazione – ci è stato consegnato un nuovo Sebastian Vettel: quello che parla in Italiano nei collegamenti radio, che dopo aver vinto dice “ci vediamo a Maranello”, che dedica in francese a Jules Bianchi la sua grande gara, che piange sul podio sentendo l’inno di Mameli e vedendo i suoi meccanici cantare. Ebbene si, caro Seb, questa è l’Italia. Un paese tanto bistrattato spesso dagli italiani stessi, ma in realtà un posto unico per viverci e lavorarci, dove tutto ha più sale, dove le vittorie sono più vittorie e, giocoforza, anche le sconfitte sono più sconfitte. Seb non ha pianto quando ha vinto i suoi Titoli Mondiali, lo ha fatto ieri: si è reso conto che vincere con la Ferrari ed in Italia non ha il minimo paragone col farlo in Austria alla Red Bull e, tantomeno, in Germania con la Mercedes. Adesso la Ferrari sa che ha fatto al scelta giusta.
La stessa identica scelta che aveva fatto con Michael Schumacher nel 1996 e, forse, ancora di più. Ora sa che ha scelto il migliore e non solo come talento di guida. Ora sa che ha scelto uno che darà sempre tutto, fino all’ultimo e lo farà non solo per professionalità teutonica o per dedizione personale, ma perché ci metterà il cuore. Insomma, da ieri ci sono due certezze: la Ferrari tornerà presto al vertice e la Formula Uno, così in crisi, ha ritrovato quello che le serve per ritornare quello straordinario spettacolo sportivo ed umano che è sempre stata. Ovvero, un campione-simbolo come né Alonso, né Hamilton, né altri all’orizzonte sono in grado di essere.