Nel paddock si diceva piuttosto apertamente che sulla pista di Silverstone, guardare l’incredibile controllo della vettura di Ronnie Peterson alla mitica curva Woodcote – beninteso, priva di qualunque assistenza elettronica o diavoleria meccanica – valesse l’intero prezzo del biglietto. E ciò probabilmente era vero. Il suo immenso talento unito ad un grande coraggio, ad una condotta di gara sempre al limite e ad una innata simpatia ne fecero l’idolo dei tifosi degli anni settanta, una sorta di antesignano di Gilles Villeneuve, anche se, probabilmente e lo dico a malincuore per la venerazione che nutro verso il leggendario canadese, con una classe pura superiore. Aveva tutto Ronnie, era da tutti amato e prima o poi sarebbe certamente diventato Campione del Mondo. Ma il destino decise diversamente e lui rimane solo uno dei più grandi ed incompiuti trascinatori di popolo nella storia della Formula 1. Ronnie Peterson, grandissimo pilota svedese dal carattere latino, dal sorriso pronto e dalla battuta sagace, morì all’ospedale di Niguarda a Milano l’11 settembre del 1978, esattamente 37 anni fa, il giorno dopo il terribile incidente che subì durante la partenza del Gran Premio d’Italia, alla guida della sua Lotus. E, ironia della sorte, poche settimane prima del suo amico e connazionale Gunnar Nilsson, stroncato da una implacabile e rapidissima malattia. Dopo essere stato campione svedese di kart dal ’63 al ’66 ed aver approcciato le auto grazie a Jo Bonnier, il miglior pilota scandinavo degli anni ’50 e ’60, Peterson passò in acquistando una Tecno e vincendo il titolo nazionale ’68 al termine di una strenua battaglia con Rejne Wisell. La vittoria nel prestigioso Gran Premio di Monaco di categoria del ’69 gli valse un contratto triennale con la March per il grande salto in F1. Nel Mondiale ’70 fu iscritto con il team satellite di Colin Crabbe e dall’anno seguente fu promosso nella squadra ufficiale, segnando subito un sensazionale secondo posto in classifica mondiale dietro all’irraggiungibile Jackie Stewart, senza nessuna vittoria ma con una impressionante costanza di rendimento e a dispetto di una vettura non certo velocissima. Nonostante la stagione ’72 si fosse rivelata al di sotto delle attese a causa del “fiasco” della nuova March “721X”, lo straordinario talento di Ronnie non passò inosservato e Colin Chapman lo chiamò nel suo team al fianco di Emerson Fittipaldi per il 1973. Il binomio Lotus-Peterson fu subito un “crack” con 9 pole position e quattro vittorie che gli valsero appena il terzo posto in classifica finale solo a causa della partenza “lenta” ad inizio stagione condizionata dai problemi di affidabilità della vettura. L’anno successivo, diventato prima guida col passaggio di Fittipaldi alla McLaren, Ronnie pagò il difficile “parto” della nuova Lotus “76”, che si rivelò non competitiva. Quando Chapman decise di tornare alla vecchia “72E”, Peterson mise a segno tre vittorie strepitose, di cui una clamorosa a Montecarlo, ma per la corsa al Mondiale era ancora una volta troppo tardi. Anche nel ‘75 fu costretto ad utilizzare l’ormai obsoleto modello “72” in attesa della nuova vettura e così quando all’inizio del ’76 la tanto sospirata Lotus “77” sembrò un ennesimo buco nell’acqua, Ronnie perse la pazienza e troncò improvvisamente il rapporto con il suo mentore Chapman per tornare di nuovo alla March, lasciando il suo posto proprio a Gunnar Nilsson. Fu un errore di valutazione che pagò caro. Nonostante ciò, con una vettura poco competitiva, vinse con una incredibile prestazione a Monza, la pista che più di ogni altra amava. Nel 1978, dopo un anno interlocutorio alla Tyrrell, Chapman lo richiamò proponendogli però – come una sorta di “espiazione” dell’antico tradimento del ’76 – un contratto esplicitamente da seconda guida alle spalle di Mario Andretti. La sua reputazione, dopo un periodo non positivo, era un po’ in calo e Ronnie, che oltretutto si era reso conto dell’errore di valutazione di due anni prima – un errore che forse gli costò la possibilità di diventare Campione del Mondo – accettò di buon grado l’offerta. La stagione fu trionfale: Andretti e Peterson dominarono il Campionato con un gran numero di doppiette e Ronnie obbedì scrupolosamente al suo compito di spalla di Mario, pur cogliendo due meritati trionfi a Kyalami e Zeltweg: fra i due si stabilì una solida amicizia. Ma proprio a Monza, nel giorno in cui Andretti sarebbe diventato matematicamente Campione del Mondo, Ronnie fu coinvolto in una impressionante e celeberrima carambola, connessa forse ad una procedura di partenza errata da parte dei commissari che diedero il via quando ancora le ultime vetture dello schieramento non avevano completato il giro di prova.

Nella confusione che si generò fu probabilmente James Hunt ad urtare per primo la sua Lotus 78 – la sua nuova “79” che peraltro aveva i serbatoi in una posizione più “riparata” rispetto alla precedente aveva avuto dei problemi durante le prove del venerdì ed era stata sostituita con il “muletto” – coinvolgendo poi un gran numero di piloti, compresi Riccardo Patrese, Hans Stuck, Patrick Depailler, Derek Daly, Brett Lunger, Didier Pironi e Vittorio Brambilla che, in un primo momento, sembrava il ferito più grave con un importante trauma cranico. Ronnie, dopo essere stato estratto cosciente dalla vettura in fiamme, morì la notte seguente a causa di una embolia, quando sembrava ormai fuori pericolo ed era stato operato per ridurre le 27 fratture che si era procurato alle gambe, alle anche e ai piedi nel tremendo impatto. Aveva già firmato un contratto con la McLaren per diventare prima guida del team di Woking nel 1979. Il suo amico Mario Andretti raccontò in seguito di avere visto Peterson ed avergli parlato prima che salisse sull’ambulanza: solo rassicurato da lui sul suo stato di salute aveva poi preso parte alla gara che vinse, prima di essere penalizzato per una falsa partenza. Fu recandosi il mattino dopo all’ospedale che Mario seppe la notizia della morte di Peterson da un addetto del casello dell’autostrada. Se ne andò così Ronnie Peterson, uno dei più grandi piloti di sempre e, certamente, un mito fra gli sportivi della sua generazione.