La Ferrari di Kimi Raikkonen ferma al palo sulla linea di partenza del Gran Premio di Monza è stata come una stilettata al cuore. Come avere il biglietto vincente alla lotteria e scoprire che il montepremi è di 50 euro, come prendere una sospirata bottiglia d’acqua dopo una corsa e scoprire che il frigo non funziona, come uscire felici dopo aver visto un bel film al cinema e trovare una multa sul parabrezza della macchina. Insomma, una delusione inattesa che rompe un bel momento che ci si stava gustando.
E, forse, anche l’impossibilità di Sebastian Vettel di mettere in difficoltà Lewis Hamilton nel corso della gara è almeno in minima parte discesa da quello scoramento iniziale da cui tutti, addetti ai lavori compresi, hanno faticato a riprendersi. Insomma, tutti ci credevano e ci speravano. Ed invece ha vinto ancora Hamilton e poco importa se sia stato favorito da una pressione dei pneumatici fuori norma – onestamente, vincere per l’ennesimo assurdo cavillo regolamentare sarebbe stato peggio di una sconfitta – perché la sua superiorità è stata schiacciante, evidente, meritata anche davanti al suo compagno di squadra Nico Rosberg, ormai sideralmente lontano dall’inglese in classifica generale. Cosa resta dunque negli occhi di tutti dopo il Gran Premio di Monza? I forsennati sorpassi di Kimi Raikkonen che tutto sommato ha dato spettacolo, lo straordinario talento di Max Verstappen, il vero numero uno del futuro, la gara solida di Sebastian Vettel sempre capace di dare il meglio in corsa, il retrotreno della Mercedes di Hamilton che è stata l’unica parte della sua macchina vista degli altri in tutti i tre giorni monzesi. Ma soprattutto Monza stessa, con la sua straordinaria velocità da “vera” Formula 1, con le sue staccate che mettono in luce il talento, con la sua cornice di pubblico inarrivabile e, naturalmente, con la sua oceanica invasione di pista finale che non ha eguali nel mondo delle corse, una tradizione nata e consolidata dopo lo spontaneo bagno di folla verificatosi per il trionfo di Clay Regazzoni nell’edizione del 1970 e che tutti gli anni, a prescindere dal vincitore, si è puntualmente ripetuta. Può la Formula 1 perdere una risorsa del genere? No. Eppure ha già fatto la stessa cosa con i Gran Premi di Francia e Germania, cui prima ha amputato le piste togliendone i settori più spettacolari in nome di una supposta sicurezza, e che poi ha implacabilmente cancellato dal calendario per problemi, al solito, di soldi. Aprendo così al Gran Premio di Corea, a quello in India, a Singapore e chissà, domani anche al Kazakistan. Sempre in nome dei soldi. Ecco, penso che sia questo il punto più evidente, la cartina al tornasole più chiara dello stato attuale della Formula 1 che ha sempre meno pubblico, appassionati, attenzione. E qui va detto che è misterioso il fatto che al centro di questa assurda situazione, in cui nessuno capisce che cancellando la storia e la tradizione in nome del business di breve termine – ovvero, soldi immediati – si finirà per distruggere tutto, business compreso, a medio termine, ci sia un uomo come Bernie Ecclestone. Si perché forse non tutti sanno che Bernie, da giovane, era un assiduo pilota che correva per passione e che si è costruito completamente da solo. Figlio di un pescatore di un villaggio del Suffolk, Bernie lasciò gli studi assai presto per seguire la sua ossessione per i motori. Iniziò facendo il meccanico, anche se la sua aspirazione era diventare pilota. Bernie era Bernie anche da giovane e grazie al suo proverbiale fiuto per gli affari mise in piedi meno che ventenne una compravendita di auto che gli permise di raggranellare i soldi per comprare la sua prima Cooper da corsa e di assecondare la sua voglia di indossare un casco e lanciarsi su una pista con un volante in mano. Nella seconda metà degli anni ’50, costituì così una propria scuderia, cosa invero piuttosto comune in quell’epoca. Si affacciò nel mondo della F1 quando i motori erano anteriori, le gomme strette e gli sponsor praticamente inesistenti, così come le misure di sicurezza. Dopo diversi tentativi poco brillanti nelle formule minori, Il 18 maggio 1958 si iscrisse con una vecchia Connaught al GP di Monaco, ma non riuscì a qualificarsi per la gara segnando in prova solo il 21° tempo. Fu forse allora che si arrese: non aveva abbastanza talento per fare il pilota. E così divenne manager: prima con la Ecclestone-Compton Racing e poi, dal 1970, rilevando la Brabham dal suo fondatore che, a 44 anni, aveva deciso di ritirarsi dalle corse e tornarsene nella sua Australia. Il resto è noto. Bernie Ecclestone ha attraversato cinquant’anni di storia delle corse, respirandone il fascino, inseguendone i sogni e vivendone ogni progresso. E’ vero, dopo lo ha fatto diventare il suo immane business ed anche in questo ha avuto successo.
Ma proprio per questo per me la figura di Ecclestone resta niente altro che un mistero: può uno che è indiscutibilmente il più grande testimone vivente della storia delle corse essere diventato così miope da non avere altri orizzonti decisionali che non siano il denaro? Può non capire che cancellando la storia ed il passato si cancella anche il futuro? Può non immaginare che una Formula 1 senza Monza – e senza Spa, Magny Cours, Hockenheim o Zandvoort – è destinata a scomparire? Io, contro ogni speranza, spero di no. Spero che, prima del suo status attuale di businessman di successo, ad 85 anni suonati si ricordi di quel ragazzo del Suffolk che invece di fare il pescatore si mise a correre in macchina seguendo la sua passione. E che agisca di conseguenza. Speranza vana?