Forse è il momento di riconsiderare la collocazione di Nico Rosberg nell’immaginario collettivo degli appassionati. Fino ad ora la sua posizione alla Mercedes è stata un po’ bollata – anche inconsciamente – come subalterna a quella di Hamilton, come una sorta di Barrichello d’argento – non ce ne voglia il piccolo-grande brasiliano rimasto nei nostri cuori – o, forse più precisamente, un Webber in Mercedes, avversario ma nemmeno troppo di un team-mate di fronte al quale avrebbe finito prima o poi per soccombere.
Ora, dopo la cavalcata – anche fortunata, per carità, ma comunque trionfale – di Shanghai, le vittorie consecutive dell’ex-numero due Nico sono diventate sei, le prime tre della stagione cui si aggiungono le ultime tre della scorsa. Per capirci, è impresa riuscita in passato solo a tre piloti che non hanno peraltro nomi qualsiasi. Il primo fu Alberto Ascari nel lontanissimo 1952, che riuscì nell’impresa in un Campionato fatto di sette Gran Premi cosa che la rende cosa titanica e che infatti lo lasciò ineguagliato per decenni. Gli altri due sono Michael Schumacher e Sebastian Vettel. Stop. Ora Rosberg-figlio è il quarto ad arrivarci e visto l’andazzo potrebbe anche superare il record. Ma siccome oggi siamo in vena di paralleli, ne facciamo un altro fra il tedesco-finlandese poliglotta e sosia di Leonardo Di Caprio ed un altro figlio d’arte la cui carriera ha fatto ricredere gli iniziali detrattori.
Si tratta di Damon Hill. Quando arrivò alla Williams già oltre la trentina e dopo una oscura e lunghissima gavetta fra apparizioni in F.1 a fondo griglia e gare minori, molti pensarono ad un colpo di immagine: Frank, da vecchio volpone delle corse, aveva scelto un uomo che portava da un lato un cognome importante – ed anche i colori del casco del leggendario padre Graham – e nel contempo non costituiva un disturbo particolare per la stella della squadra, Alain Prost. E, molto realisticamente, fu proprio così. Ed invece Damon si rivelò subito veloce vincendo anche qualche gara: ma non fu abbastanza per convincere i suoi detrattori che in sostanza dicevano che “chiunque avrebbe vinto con la Williams”. Poi, nel 1994, la storia doveva ripetersi con il suo nuovo ed indiscusso caposquadra, Ayrton Senna. Quell’anno Damon sulla carena della vettura portava un significativo ed umilissimo numero zero.
Poi successe quello che successe. Damon, il brutto anatroccolo capitato lì “per caso”, prese sulle spalle la scuderia, cominciò a vincere come non aveva mai fatto, finì secondo solo a Schumi nei mondiali 1994 e 1995 – non senza scintille con il tedesco – e vinse quello del 1996 con pieno merito battendo lo stesso Schumacher, non certo un avversario qualunque. Poi, lasciò un Sir Frank un po’ ingrato – e non era la prima volta che accadeva – da Campione del Mondo, per svernare alla Arrows e trovare l’ultimo colpo di coda con la Jordan, vincendo a Spa nel 1998. E così, a fine carriera, di fronte ad un Titolo Mondiale, ventidue vittorie e venti pole position, ci si accorse che tutto questo non poteva essere capitato “per caso”. Ma solo grazie al talento, forse maturato tardi, ma comunque innegabile. E, finalmente, riconosciutogli da tutti. Ora, la similitudine della sua storia con quella più moderna di Rosberg è del tutto evidente.
Anche Nico arrivò nelle corse con un cognome pesante, quello del padre Campione del Mondo 1982. Anche lui ha portato avanti una lunga gavetta che, unica significativa differenza con Damon, ha consumato quasi interamente in F.1 con intere stagioni passate a metà classifica con addosso la scomoda etichetta di “potenziale” campione che non riusciva mai a togliersi di dosso quell’aggettivo – potenziale, appunto – spesso scomodo. E poi la chiamata in Mercedes, in un team acerbo e all’ombra di Michael Schumacher. Quando la Mercedes è diventata vincente la cosa ha coinciso con l’arrivo di Lewis Hamilton, e forse non è stato evento casuale. Così Nico, pur iniziando finalmente a raggranellare qualche vittoria dopo anni e anni di “fatica e botte”, è sempre stato percepito come l’anello debole della catena, un “finto avversario” da tenersi in casa per ravvivare i Campionati ma destinato prima o poi a finire battuto dal compagno-avversario inglese. Ora le cose sono cambiate. O forse è meglio dire…
…è cambiato lui. Ha maturato – tardi come Damon – la sua dimensione di Campione che si estrinseca soprattutto con la freddezza e la calma con cui, senza tentennamenti, sfrutta ogni disavventura degli avversari. Intendiamoci, non credo affatto che Hamilton sia tagliato fuori dalla lotta per il Mondiale, anzi ritengo che – stile Juve – la lunghezza del Campionato gli permetta tranquillamente di rientrare e di giocarsela fino all’ultimo. Ma occorre anche dare a Cesare quello che è di Cesare.
Quest’anno Rosberg sarà avversario vero, attrezzato, convinto e durissimo da battere. Farlo sarà una impresa. Alla portata probabilmente anche della Ferrari. E qui torniamo a Shanghai: ancora una volta non siamo riusciti a vedere una gara “lineare” delle Rosse, per saggiare la loro vera potenzialità che, almeno a sensazione, sul passo gara è vicinissima a quella delle Mercedes. Vettel – per una volta mi perdonerà se gli do torto rispetto alla sua diatriba con Kvyat, che ha fatto una manovra temeraria ma onesta e che per quella manovra si è guadagnato un meritatissimo podio – ha compiuto una strepitosa corsa di rimonta piena di sorpassi ed i suoi trenta secondi di distacco da Rosberg non sono significativi per l’analisi, dato che sono dovuti in gran parte al traffico ed ai problemi con gli alettoni.
Anche Kimi Raikkonen sembra finalmente nell’annata giusta, concentrato e determinato anche se in debito con la sorte. Insomma, potrebbe essere una corsa a quattro – la Red Bull pur ottima in Cina mi pare ancora un passo indietro – che, però, sembra più una caccia alla lepre: Nico Rosberg.