Non è un gran momento per Sebastian Vettel. Tra sfortuna, errori di strategia ed una Mercedes che sembra scappare avanti tutte le volte che gli si avvicina – o tenta di farlo – il tedesco adottato da Maranello sta vivendo forse il momento più difficile dal suo approdo in Ferrari. Raggiunto perfino in classifica dal suo compagno di squadra Kimi Raikkonen, già da qualche tempo dato per bollito. Eppure Seb – talento cristallino e personalità interessante, forse l’unico personaggio “vero” anche oltre le corse che bazzichi il mondo della F.1, oggi frequentato ormai per la sua quasi totalità da piloti nati davanti alla Playstation che fuori dalle piste a parte qualche foto da paparazzo hanno abbastanza poco da dire – nonostante tutto rimane simpatico, non subisce che critiche moderate e non sembra aver cominciato a generare quei dubbi che, per esempio, aveva destato in condizioni simili alle sue il tempestoso Fernando Alonso.
Sarà per quel suo sorriso che ha spesso stampato in volto o perché è uno dei pochi capace di cantare anche fuori dal coro.Un esempio ne è la vicenda-Rindt che i media hanno riportato qualche giorno fa e che forse è passata sotto il naso di molti lettori senza destare troppo interesse, ma che non può mancare di incuriosire gli appassionati “veri” di corse. La cronaca: Vettel, noto amante del vintage – è un fan sfegatato dei Beatles, per esempio – non ha mai nascosto di avere un debole per la storia della F.1 e, soprattutto, per i grandi piloti del passato di cui fin da piccolo aveva studiato le gesta. Qualche giorno fa questa sua passione ha portato il buon Seb ad acquistare una collezione di ritratti di grandi piloti – 32 opere – dell’artista inglese Mark Dickens. Alla domanda dei cronisti su quale fra questi mostri sacri del passato fosse stato più di ispirazione per lui, Seb fra la sorpresa generale ha risposto Jochen Rindt. E non penso lo abbia fatto per piaggeria dal momento che si era nei dintorni del Gran Premio d’Austria.
Jochen Rindt è una scelta “alla Seb”: originale, sorprendente, diversa. Rindt è forse il più grande campione dimenticato della storia della F.1, uno citato raramente, uno che pochi dei “giovani” hanno sentito nominare, uno il cui ricordo si è un po’ perso nell’oblio del tempo. Eppure fu il primo grande, straordinario personaggio della F.1 fra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Lontano anni luce per carattere, appeal e capacità di presa sul pubblico dalla riservatezza di Jim Clark, dalla ritrosia un po’ distante di Jacky Stewart, dal perfetto stile british di Graham Hill o di John Surtees o dalla burbera tempra forgiata dall’officina di Jack Brabham o Denny Hulme. Jochen fu il primo dei moderni, l’antesignano dei Regazzoni, degli Hunt e dei Fittipaldi che segnarono le successive generazioni di corse. Ma chi era Karl-Jochen Rindt? Innanzi tutto è l’unico pilota ad essere diventato Campione del Mondo di Formula Uno dopo la sua morte. E già questo lo rende unico. Ma dietro a questa poco invidiabile particolarità per cui è normalmente ricordato, si cela ben altro: un pilota dal talento strabiliante e naturale, forse troppo portato all’irruenza ma con una sensibilità di guida decisamente fuori dal comune. Ed un uomo diverso e originale, dal fascino magnetico, sigaretta sempre fra le dita, strepitoso comunicatore. La sua splendida moglie, Nina Rindt, fa la prima vera “signora del paddock”.
La sua infanzia fu segnata dal dramma della morte dei suoi genitori avvenuta durante il bombardamento di Amburgo nel 1943. Suo padre Klein era tedesco ed era un ricco commerciante di spezie, mentre sua madre era un avvocato austriaco. Rimasto orfano, lasciò la natia Germania e si trasferì dai nonni materni a Graz, in Austria. Furono forse questi tragici eventi a fare di lui un ragazzo irrequieto, scostante e poco avvezzo allo studio e alle regole. Grazie al patrimonio familiare Jochen si accostò a quella che, fin da subito, si rivelò come la sua più grande passione, che divideva peraltro con il suo amico d’infanzia Helmut Marko: le corse automobilistiche. Nelle formule minori fu subito una stella, rivelando il suo talento: eppure la sua carriera in F.1 non gli rese mai completamente giustizia perché fu spesso sfortunato nella scelta delle vetture: il suo primo team ufficiale fu la Cooper fra il ’65 e il ’67 quando la casa inglese era già in parabola discendente e poco competitiva.
Quando nel ’68 passò alla Brabham, fresca di due titoli mondiali consecutivi, si imbatté nell’ultima versione del motore Repco che ne frenò decisamente le prestazioni. Il bello è che nel frattempo Jochen otteneva grandi risultati in tutte le altre competizioni cui partecipava. Aveva vinto a 23 anni a Le Mans, con una Ferrari della NART divisa con Masten Gregory; era stato terzo alla prima esperienza ad Indianapolis nel ’68 con una Brabham; e soprattutto stava dominando la scena in Formula Due – serie che a quei tempi godeva di grandissima popolarità e vedeva la partecipazione di tutti i grandi piloti e le grandi case costruttrici – dove fu campione nel ’67 e ’68 con una stagione, la prima, da nove vittorie e 13 podi su 15 gare disputate. Ma in F.1 solo briciole: fu ormai quasi con un’ossessione che firmò nel ’69 per la Lotus. L’anno iniziò male con un grave incidente a Jarama che lo costrinse ad un lungo periodo di inattività, ma a Watkins Glen, a fine stagione, arrivò finalmente la prima, sospirata vittoria della sua carriera. Fu una sorta di liberazione che sciolse le remore che limitavano il suo talento. Aveva già deciso di tornare alla Brabham, ma quella vittoria e la promessa di una innovativa vettura da parte di Chapman – insieme, si disse, ad un ingaggio principesco – lo convinsero a restare.
La stagione ’70 si aprì con la vecchia “49C” con cui vinse a Monaco beffando all’ultimo giro Jack Brabham. A Zandvoort debuttò la sensazionale Lotus “72” con cui Rindt conquistò quattro vittorie consecutive che lo proiettarono in cima alla classifica. C’erano molte voci sul suo ritiro a fine stagione alla vigilia del GP d’Italia a Monza, ritiro che si diceva causato anche dalla morte in pista, nel giro di pochi mesi, dei suoi due strettissimi amici Bruce McLaren e Piers Courage. Durante le prove, “qualcosa” cedette sulla sua Lotus – forse il braccetto di una sospensione – e Jochen Rindt tradito dalla vettura impazzita centrò le barriere ad oltre 300 Km/h all’attacco della Parabolica; un incidente dalla dinamica incredibile e sfortunata: nell’impatto la sua vettura si incastrò col muso sotto il guard-rail strappandolo letteralmente fuori dall’abitacolo. Morì sul colpo: aveva 28 anni. Un mese dopo, il semi-debuttante Emerson Fittipaldi vinse con la “72” a Watkins Glen, consegnando il Titolo Mondiale allo sfortunato austriaco, non più raggiungibile in classifica nonostante la sua prematura scomparsa.