Quarant’anni fa Niki Lauda si schiantava nell'”inferno verde” del Nurburgring alla veloce curva Bergwerk con la sua Ferrari. Era lanciato verso un Titolo Mondiale che avrebbe confermato quello dell’anno precedente e che sembrava ormai saldamente nelle sue mani. Invece, in pochi secondi, la storia decise di cambiare il suo corso e Niki si ritrovò imprigionato fra le lamiere in fiamme della sua vettura, arrivando ad un passo dalla morte.
Fu salvato dal coraggio di alcuni suoi compagni di pista – Arturo Merzario, Guy Edwards e Brett Lunger su tutti – e dopo uno stupefacente recupero tornò incredibilmente al volante una cinquantina di giorni dopo a Monza. Il volto sfigurato dal fuoco. Una storia affascinante, una storia di coraggio. Una storia che tutti conoscono e gli appassionati più “longevi” ricorderanno come fosse ieri.
Oggi che Lauda veste il giubbino grigio della Mercedes, la sua storia ci suggerisce il “gancio perfetto” per parlare del tema del momento: la crisi della Ferrari. Nel periodo dei trionfi di Lauda la Ferrari era grande protagonista: era tornata ai vertici dell’automobilismo mondiale dopo un lungo periodo di difficoltà fatto di pochi alti e molti bassi, qualche vittoria e nessun titolo mondiale.
Dieci anni di digiuno. Era tornata ai vertici grazie ad una serie di felici intuizioni di Enzo Ferrari: lasciare l’impegno nel Mondiale Marche per puntare tutto sulla F.1, cercare – e trovare – un pilota giovane ma di talento voglioso di emergere come Niki Lauda, rifondare la squadra senza sconvolgerla, dando continuità con Mauro Forghieri ed una ventata di aria nuova con il “deb” Luca di Montezemolo. Certo, era una F.1 diversa.
I gap tecnici con vetture più “semplici” delle attuali, interamente “meccaniche” e non progettate al computer – cosa che le rendeva tutte diverse l’una dall’altra e per questo molto più interessanti – si colmavano molto più facilmente ed in tempi molto meno lunghi. Forse anche perché nel mondo della F.1 c’erano teste capaci di inventarsi qualcosa di diverso ad ogni pié sospinto, cosa che spesso finiva per rimescolare le carte e modificare gli equilibri in pista.
O forse perché “il piede” contava sul serio. Ma comunque, la ricetta per la “resurrezione” da parte del Drake fu semplice: talento, coraggio e lavoro. Ed una gestione “sportiva” e non “aziendale”. Dopo quel fantastico periodo culminato con il titolo del ’79, la rivoluzione tecnica dei motori turbo mise in crisi il Cavallino. Le tragedie del 1982 segnarono – anche dal punto di vista psicologico – la Squadra che ricadde a poco a poco in un periodo di depressione. La morte di Enzo Ferrari nel 1988 fece il resto. Nel 1996 arrivò Jean Todt e rimise in piedi la baracca.
La ricetta? Una nuova gestione “sportiva” e non “aziendale”: prendere il pilota migliore e rifondare la compagine tecnica della Scuderia senza sconvolgerla. Arrivarono Michael Schumacher e Ross Brawn. Il gap con i migliori era notevole e ci vollero quattro anni di lavoro per tornare a vincere: in quei quattro anni, nonostante gli “zero tituli” il Reparto Corse rimase praticamente inalterato e nessuno si sognò di sollevare dall’incarico Todt o dare del bollito a Schumacher.
Quello che successe è storia: anni ai vertici assoluti fino a quando Brawn, la vera “mente” della squadra, aveva lasciato il Cavallino. Si doveva ricominciare da capo e non era facile. Il mondo però, tutto intero e non solo quello della F.1, stava cambiando. In quegli anni si affermavano come “parte della vita di tutti i giorni” gli smartphone, il web ed il “villaggio globale”, ambiti nei quali consumare tutto e subito, essere bombardati di messaggi – come dice Jovanotti in una sua canzone, “a forza di essere molto informato so poco di tutto” – e non dovere attendere più nulla, fosse anche i pochi secondi di una connessione.
Il mondo da allora si misura in gigabyte ed in millisecondi. Ebbene, la F.1 non era più quella dei “costruttori”, quegli appassionati cresciuti a pane e olio motore che sapevano che le corse sono fatte di alti e bassi, che sono una questione “sportiva” e non “industriale” e che vivono anche di pazienza e tenacia. In un mondo così non si può attendere a lungo. Bisogna vincere subito. La ricetta per la “resurrezione” – attenzione, da sempre il mondo delle corse è ciclico, alternando periodi d’oro ad altri decisamente mono fortunati – scelta da Montezemolo fu così diversa: si prese il miglior pilota, certo, ovvero Fernando Alonso, ma lo si mise sotto pressione, lui e tutto il Reparto Corse, cambiando spesso, mescolando i ruoli, facendo saltare teste.
Senza pazienza. Così fu sollevato dall’incarico Stefano Domenicali, non uno qualunque. E non solo lui, ma molti che negli anni precedenti avevano contribuito ai tanti successi. Fu un errore perché i gap, invece che diminuire, aumentavano. A fare il resto ci si è messa la formula uno di oggi, talmente cervellotica e stringente nelle sue regole tecniche e sportiva da far sì che i “percorsi di sviluppo” delle vetture siano quasi obbligati, simili per tutti e, dunque, le possibilità di recupero per chi parte dietro molto minori e molto più a lungo periodo.
Il dominio attuale della Mercedes non è frutto di una felice intuizione nella realizzazione della W07, ma la conseguenza di un lavoro sedimentato da almeno tre/quattro anni e che gli altri sono costretti a rincorrere. Il fatto che i costruttori “indipendenti” di motori siano scomparsi, la gomma unica e la povertà dei talenti fra i piloti hanno fatto il resto. In una situazione del genere è arrivato Sergio Marchionne. A tal proposito ho recentemente sentito una interessantissima intervista a Luigi Mazzola, per oltre vent’anni – da Berger a Raikkonen – uomo importante del Reparto Corse.
Mazzola ha una precisa idea sulla “crisi Ferrari” che mi trova completamente concorde e che vorrei condividere: Marchionne è indiscutibilmente uno straordinario capitano d’industria, un uomo capace di “organizzare” e “gestire”, che ha risollevato la Fiat con felicissime intuizioni strategiche e con qualche scelta dolorosa ma necessaria, come quella di diventare “meno italiana” e più internazionale. Ma non è un uomo di sport.
Lui è intervenuto in Ferrari come avrebbe – giustamente – fatto in qualunque azienda dove fosse arrivato per rifondare, mettendo i “suoi” uomini nelle posizioni apicali, cambiando le strategie e facendo “piazza pulita” con il passato. Ha scelto Seb Vettel, ovvero il miglior pilota in circolazione pure animato da grande desiderio di rivalsa, ed in questo ha seguito le orme dei suoi predecessori. Ma per il resto ha trattato il Reparto Corse come una azienda. Attenzione, non è una sua colpa: ha semplicemente utilizzato il suo straordinario background. Ma l’automobilismo, per fortuna, è ancora e fino a prova contraria uno sport.
Come diceva argutamente Mazzola, in una azienda ci si misura sempre con sé stessi, con l’anno precedente, con i risultati “di prima”, con le proprie performance. Migliorare sé stessi – rispetto al passato – è un successo. Nello sport no. Non basta. Perché ci sono gli avversari e anche loro “migliorano” di anno in anno. Non basta l’approccio aziendale, occorre un approccio “sportivo”.
Quello di Enzo Ferrari, del primo Montezemolo, di Todt. Migliorare non basta per vincere. Serve quel qualcosa in più, quella “scintilla”, quell’ultimo passo che solo chi respira sport, chi vive le corse da sempre, che le conosce bene può capire. Perché, incredibilmente, ogni anno è diverso. Ora sembra ricominciata la caccia alle streghe: Allison è stato già defenestrato e Maurizio Arrivabene, additato come un nuovo profeta all’inizio della sua esperienza, sta già traballando come la panchina di un allenatore del Palermo.
Manca la pazienza, la tenacia, la dedizione. Forse ci vorrà qualche anno di lavoro e qualche colpo di fortuna in più. Magari un cambio di regolamenti, di circostanze, di approccio. Magari un nuovo tentativo. Ma non una rivoluzione di uomini, che significherebbe ricominciare di nuovo da zero e trovare, tra qualche mese, degli altri colpevoli da defenestrare.