7 gennaio 1974. Fra pochi giorni saranno cinquant’anni “finiti”. In una località della Baviera dal nome impronunciabile, cinque italiani si classificano ai primi cinque posti dello slalom gigante: Piero Gros, Gustav Thoeni, Erwin Stricker, Helmut Schmalzl, Tino Pietrogiovanna nell’ordine. Mai accaduto nella storia e mai accadrà. Frequentavo (di malavoglia) le superiori e in particolare andare a scuola il sabato era una doppia sofferenza: la Rai in bianco e nero trasmetteva le gare di coppa del mondo di sci. Telecronista Alfredo Pigna, morto 94enne a fine 2020. La voce calda, i toni misurati, le domande competenti senza sconfinare nell’insistenza. Se c’è una pecca, nel film La valanga azzurra presentato in novembre a Bolzano davanti ad una marea (verrebbe da dire “una valanga”) di gente, molti col berretto di lana e gli sci di legno in spalla, andato in onda il 30 dicembre su Rai 3, è proprio essersi scordato della colonna sonora formata dalle sue telecronache, mentre Thoeni e co. danzavano sugli sci.
Già, il mitico Gustav da Trafoi, frazione in alta Val Venosta, comune di Stelvio. Prati, boschi, torrenti, neve alta così e la maestà dei monti che vanno sopra i 3mila, un paradiso in terra ancora oggi nonostante il turismo di massa. Se mi chiedono a quale atleta ho legato la mia gioventù rispondo Gustav Thoeni, io che vivevo sulle Prealpi lombarde e il primo paio di sci (ma da fondo) li ho calzati a vent’anni suonati da un pezzo. Ma Thoeni era Thoeni, diverso da tutti, di poche parole, erroneamente definito introverso quando era semplicemente un uomo di poche parole perché le parole, quando sei nato e cresciuto in mezzo alla bellezza, sono di troppo.
Messo alle strette da Pigna e colleghi, rispondeva quasi a monosillabi e scriverci sopra un’intervista diventava un problema. Ma c’erano le gare a parlare per lui: 4 coppe del mondo, 5 coppe di specialità fra slalom gigante e speciale, 3 ori alle Olimpiadi. Il bellissimo film firmato da Giovanni Veronesi, sceneggiatore, regista, conduttore radiofonico, mette in luce un aspetto della “valanga azzurra” che l’allontana da un semplice – per quanto intrigante – esercizio di amarcord e la rende un esempio di straordinaria, urgente attualità.
Basta fare un confronto con gli sciatori che sono venuti dopo, da Tomba (grandissimo in pista, incapace davanti ad un microfono di esprimere un pensiero degno di tal nome, ma nel giornalismo sportivo di oggi sarebbe di troppo) in poi, fatta qualche timida eccezione: là c’era un’umiltà, una misura di gesti e di parole, una capacità di sottrarsi ai riflettori quando potevano essere di troppo, che negli atleti di oggi (mica solo nello sci, s’intende) è vano ricercare.
Certo, allora l’invadenza dei mezzi di comunicazione di massa non esisteva, la stessa definizione “mass media” era roba solo per sociologi, eppure quel modo di far parlare più i fatti delle parole diceva di un modo di essere, di affrontare la vita, di misurarsi con gli avversari e i propri limiti che s’è persa. Thoeni ne era l’esempio migliore e lo fu anche quando decise di mettere in gioco la propria coscienza schierandosi apertamente nel referendum sul divorzio (ma il film non ne parla): nel pieno della notorietà, il suo “Sì, come nel giorno del matrimonio” campeggiava sui manifesti e fece scalpore. Ma non ne intaccò l’immagine.
Veronesi sottolinea il miracolo di un venticinquenne o giù di lì, per nulla uomo di spettacolo, anzi restio a comparire sul palcoscenico, i cui silenzi coagularono intorno a sé la più grande squadra italiana che lo sci abbia mai avuto, capace per un decennio di zittire austriaci e svizzeri che sugli sci erano nati. Sceso il sipario su quella stagione irripetibile, passato lo sci da disciplina d’élite e fenomeno di massa o quasi, Thoeni è tornato nella sua Trafoi, nell’albergo di cui è proprietario, circondato da uno stuolo di dodici nipoti: “Viviamo per loro” ha detto la moglie Ingrid. Una vita semplice e felice, al cospetto silenzioso di sua maestà lo Stelvio.
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