Si moltiplicano e si rincorrono le notizie sulle varianti del Covid: dopo l’inglese, la sudafricana e la brasiliana, sono state rilevate le varianti scozzese – in provincia di Varese, si tratta di una mutazione della mutazione, annunciata da Guido Bertolaso dopo un incontro d’urgenza in Regione Lombardia –, e nigeriana, quest’ultima già rilevata in Danimarca, Regno Unito, Nigeria e Stati Uniti, e ora rinvenuta per la prima volta in Italia, a Napoli. Negli Stati Uniti, a Los Angeles, sarebbe stata individuata inoltre, e forse la notizia è ben più preoccupante, la prima “ricombinazione”, cioè il primo Sars-Cov-2 ibrido, potenzialmente in grado di cambiare le sorti della pandemia. Mentre l’allarme varianti continua a montare, però, il numero di morti in Italia scende, con una media giornaliera sul dato settimanale più bassa rispetto alla scorsa settimana. Quella sulle varianti, quindi, è una preoccupazione lecita o si tratta di un allarmismo per ora difficilmente giustificabile, dati alla mano? Lo abbiamo domandato a Massimo Clementi, professore ordinario di Microbiologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e primario, presso la stessa struttura, del laboratorio di microbiologia e virologia.
Professore, come va interpretato il proliferare delle varianti?
Questo è un virus che infetta, va avanti e sopravvive generando delle varianti, l’ha sempre fatto e lo farà sempre. Finché non usciremo dall’epidemia attraverso una vaccinazione efficace su tutta la popolazione, assisteremo a questo evento che caratterizza proprio i coronavirus. Mutano, generano delle mutazioni, le mutazioni a volte generano varianti, le varianti possono avere la vita di un giorno o di un anno secondo il vantaggio che assicurano al virus o meno.
Queste che vediamo ora lo fanno?
Sì, perché conferiscono al virus una maggiore capacità replicativa. Ci si è interrogati se fossero anche più patogene, generalmente un virus non fa varianti più patogene, non è un elemento che può dare qualche vantaggio al virus. Ovviamente il virus deve sfuggire alle pressioni selettive, la pressione selettiva in questo momento è la capacità di infettare più gente. Questa cosa si è rilevata nella variante inglese, che è quella al momento di maggior successo, le altre vedremo se avranno un futuro.
Dobbiamo allarmarci o no?
Il motivo per cui io e anche altri abbiamo invitato a una maggiore prudenza – niente allarmismi e attenzioni non giustificate da una reale motivazione clinica – è il fatto che queste varianti, in primo luogo, non sono più patogene, e in secondo luogo, sono riconosciute dai vaccini e dagli anticorpi monoclonali attualmente a nostra disposizione, fino a prova contraria.
Cioè?
Finché non si dimostra che arriva una variante che sfugge ai vaccini.
In quel momento cosa dovremmo fare?
Qualora l’epidemia fosse ancora in essere, dovremmo aggiornare i vaccini. Non spaventiamoci: lo facciamo tutti gli anni. Tutti gli anni aggiorniamo il vaccino dell’influenza e tutti gli anni dobbiamo ripetere un vaccino diverso da quello dell’anno precedente perché il virus ha generato delle varianti.
Questo è importante sottolinearlo, se ne parla poco.
Sì, e ci tengo a ricordare un’altra cosa che ho già detto, ma mi piace ripeterla perché nessuno la rimarca a sufficienza: quando l’infezione da Sars-Cov-2 si è diffusa in Europa, si è diffusa con una variante. Il virus, rispetto a quello che era già circolato nella prima fase dell’epidemia di Wuhan, era già mutato, aveva una mutazione nella proteina spike che dava un vantaggio al virus stesso.
Che tipo di vantaggio?
Gli europei, rispetto agli orientali, hanno un numero inferiore di recettori dell’albero respiratorio, gli Ace2: i recettori che legano il virus. Trovandone di meno, il virus in Europa aveva qualche difficoltà a infettare e così si è dovuto adattare.
Quindi dall’inizio della pandemia era già una variante a circolare?
Sì, però nessuno si era spaventato, anche perché andava di moda fra i commentatori dire che il virus non cambiava, non so perché; non c’era questa sensibilità a studiare il cambiamento dei virus, adesso invece si è scatenata tutta questa attenzione.
A Los Angeles invece è stata scoperta la prima ricombinazione, il primo Sars-Cov-2 ibrido. Cosa vuol dire, che si ricombinano due virus e ne risulta uno nuovo?
Sì, si ricombinano: i virus a Rna fanno anche questo. E può essere una cosa problematica. Se due virus co-infettano le stesse cellule, la stessa persona o lo stesso animale, può accadere che si mescoli il genoma di uno con quello dell’altro. Quasi sempre viene fuori un virus che o non replica affatto, perché è un mostro genetico, o replica poco. In qualche caso, raro, viene fuori un virus che replica di più. Non credo sia questa la circostanza. Lo hanno scoperto, la cosa è interessante dal punto di vista biologico, ma pare che si fermi lì.
La ricombinazione comunque è un evento raro?
Sì, un evento raro per i coronavirus, ma frequentissimo nei virus influenzali. Nella pandemia del 2009, durata pochi mesi ma definita pandemia dall’Oms, si trattò di un virus definito all’inizio suino che in realtà era il mescolamento di un virus umano, suino e aviario. Addirittura tre diverse specie avevano contribuito a creare questo virus. I virus influenzali hanno la particolarità di avere il genoma frammentato e ciò favorisce, quando infettano lo stesso ospite, la ricombinazione.
La preoccupazione cresce, ma le morti in Italia sembrano accennare a un calo.
Speriamo che si consolidi questo dato, sarebbe importante. Dovremmo tenere duro ancora un mese o due, poi cambierà il tempo, si avvicina la primavera e questo è un virus che risente anche della temperatura media e dell’irraggiamento degli ultravioletti. Lo dico incrociando le dita, ma se le cose dovessero mantenersi almeno stabili potremo stare più sereni, specie se entreremo in una fase finalmente seria della vaccinazione. Me lo auguro: meno primule e più vaccini.
E anche meno allarmismi e più vaccini?
Con i vaccini e la stagionalità che ci verrà in aiuto, se resistiamo ancora un paio di mesi ce la faremo.
(Emanuela Giacca)
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