Che la questione della riconoscimento della libertà della Chiesa nei Paesi dove essa è negata da un regime autoritario, rappresenti per la Chiesa stessa e per la Santa Sede un passaggio pieno di insidie che possono lacerarne la comunione, è esperienza dolorosamente sperimentata già nel secolo scorso, quando Giovanni XXIII, nel breve tempo del suo pontificato, e, in seguito, con maggiore forza e organicità, Paolo VI, hanno avviato la Östpolitik e concluso accordi provvisori e riservati sulla nomina dei vescovi, con l’Ungheria (1964) e con la Jugoslavia (1966). In Polonia ci furono trattative che, se non portarono ad un accordo, permisero, nel 1974, di istituire due tavoli di lavoro. In Cecoslovacchia non si riuscì ad arrivare ad un accordo per l’ostilità del governo, ma nello stesso anno fu possibile nominare quattro vescovi. Una tale politica suscitò molte discussioni e determinò l’aperto dissenso del card. József Mindszenty, il primate ungherese, che dal 1956 si era rifugiato all’ambasciata statunitense di Budapest, e anche un certo malessere nell’episcopato dei Paesi dell’allora blocco comunista.



Tutte queste vicende possono essere considerate i precedenti degli accordi conclusi con due Stati asiatici, a cavallo di questo secolo, con il Vietnam nel 1994, e nel settembre 2018 con la Cina, che hanno tentato di regolare bilateralmente la questione delle nomine episcopali nei due Paesi.

Alla luce di questa breve premessa, almeno a mio parere, è possibile cogliere le linee sulle quali si muove la politica vaticana quando cerca di ottenere maggiori spazi di libertà per la Chiesa, partendo dalla libertà di nomina dei vescovi. Questo non significa, infatti, che la diplomazia vaticana cerchi sempre di raggiungere la libertà prevista dal codice, ma piuttosto che persegue l’ottenimento di una libertà maggiore di quella esistente al momento delle trattative, quando, come nel caso cinese, ma anche negli altri citati, l’alternativa è tra nomine che di fatto sono solo governative e nomine clandestine. Come disse il card. Fernando Cento nella riunione dei cardinali del dicastero vaticano competente a definire i rapporti con gli Stati, che nel 1963 era stato investito della prima trattativa di mons. Casaroli con l’Ungheria, “il criterio da seguire nella prosecuzione delle trattative è quello che ha guidato sempre la diplomazia vaticana e cioè: piegarsi a ciò che è nell’ambito del concedibile; rimanere irremovibili in quanto concerne ciò che tocca la essenza” (citato in András Fejérdy, L’intesa semplice del 1964 tra la Santa Sede e l’Ungheria, RSU XI (2012), 98).



Risulta evidente che la prevalenza è data alla libertà di nomina dei vescovi da parte della S. Sede, ma che il punto di riferimento è soprattutto di sbloccare la situazione esistente, così come risulta chiaro che nessun governo è disposto a rinunciare a un tale potere. In un contesto radicalmente diverso, la resistenza del governo spagnolo post-franchista, proprio perché il re e il governo resistevano su questo punto, fece naufragare la trattativa concordataria del 1976.

Rimane poi da chiarire che la completa libertà delle nomine episcopali da parte della Chiesa è l’esito di un processo molto lungo. Il superamento del diritto di nomina dei vescovi da parte dei sovrani, che era la modalità quasi universale nell’Ottocento, si è trasformata, nei concordati della prima parte del secolo XX, nel diritto riconosciuto agli Stati di sollevare obiezioni di carattere politico, e solo nei concordati post-conciliari si è arrivati al riconoscimento della libertà di nomina del romano pontefice, come è previsto dal codice canonico, sin dal 1917, con il solo limite che i vescovi siano cittadini dello Stato che ha firmato l’accordo.



La strada verso la piena libertà è stata lunga e intervallata da crisi anche dolorose, come dimostrano, solo per citare i più noti, il caso Mindszenty e quelli del card. Josef Beran di Praga e del card. Stefan Wyszynski, primate di Polonia. A questi si aggiunge la vicenda del card. Nguyen Van Thuan, al momento degli accordi con il Vietnam del 1994, vescovo coadiutore di Hanoi, ma prigioniero delle autorità vietnamite, che, per rendere possibile una nomina a Hanoi accettata anche dal governo, fu costretto a rinunciare al suo ufficio e chiamato a Roma.

La vicenda del card. Joseph Zen di questi giorni potrebbe non essere l’ultima. Tali situazioni vanno guardate dai credenti con dolore e con la consapevolezza che anche queste sofferenze, per evitare le quali la politica vaticana deve mettere in atto ogni sforzo possibile, sono da considerare un momento del dispiegarsi nella storia del mistero del popolo di Dio.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI