L’aborto, per sua stessa natura, tocca così intimamente la relazione madre-figlio in una dialettica di accettazione-rifiuto spesso drammatica, che ogni volta scuote e provoca la pubblica opinione, la divide tra innocentisti e colpevolisti, tra sostenitori del diritto di autodeterminazione ad oltranza e sostenitori del diritto alla vita, sempre e comunque. E anche questa volta è andata così. Sembrava che l’aborto farmacologico in versione fai-da-te dovesse essere semplicemente la semplificazione di una prassi chirurgica, che ai più appare oggi troppo invasiva; o tutt’al più una semplificazione organizzativa, per cui si portavano a domicilio procedure ritenute innecessarie, con l’obiettivo di liberare letti in corsia e ridurre i costi dell’aborto al solo prezzo delle pillole, fornite gratuitamente dall’ospedale.
Il dibattito si è acceso immediatamente tra le due opposte posizioni: da un lato chi, avendo optato da lungo tempo per una visione dell’aborto totalmente centrata sul diritto della donna a disporre di sé e del bambino come meglio crede, e dall’altro la considerazione di chi ritiene che si possa disporre di sé, entro certi limiti, ma mai della vita di un altro, che non ci appartiene, neanche quando quest’altro è inequivocabilmente il figlio.
Le nuove linee guida del mistero della Salute
Nasce dall’esplicita volontà politica del ministero della Salute l’aggiornamento delle linee di indirizzo sull’utilizzo della pillola abortiva Ru486. È quanto emerge dalla lettera che il nuovo direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero della Salute, Giovanni Rezza, ha inviato agli assessorati alla Sanità delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano per informarli che l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha esteso l’impiego del mifepristone e delle prostaglandine (Ru486) per l’aborto chimico fino alla nona settimana; la somministrazione può avvenire anche in regime ambulatoriale.
Secondo le nuove linee guida infatti non c’è più l’obbligo di ricovero dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla conclusione del percorso assistenziale e si può ricorrere alla pillola abortiva fino al 63esimo giorno di età gestionale, ossia fino alla nona settimana di gravidanza. Unica precauzione prevista dal Consiglio superiore di sanità: non somministrare il farmaco alle pazienti che soffrono di ansia, che hanno una soglia del dolore molto bassa e che vivono in condizioni igieniche precarie. Il farmaco può essere somministrato sia in consultorio, sia in ambulatorio da personale dedicato. Le donne potranno ritornare a casa dopo mezz’ora dalla somministrazione e dopo due settimane è prevista una visita di controllo, durante la quale verrà offerta una consulenza per la contraccezione. Secondo gli estensori delle linee guida i vantaggi sono molteplici: l’aborto risulta meno traumatico e consente un notevole risparmio economico per il Servizio sanitario nazionale.
Ma se il 13 agosto il ministero della Salute ha pubblicato le nuove linee guida per l’aborto farmacologico con una circolare ad hoc, ieri la Pontificia accademia per la vita (Pav) ha pubblicato una nota che contiene osservazioni molto critiche sul nuovo modo di interrompere la gravidanza con l’assunzione della Ru486, la cosiddetta pillola abortiva. La nota è molto prudente e cerca di muoversi nel pieno rispetto della legge 194, di cui rivendica alcuni passaggi chiave, che a suo avviso risultano almeno in parte compromessi dal nuovo stile di aborto farmacologico.
La nota della Pontificia accademia per la vita
In premessa si dice con chiarezza che non sarà certo la nota della Pav a far cambiare le posizioni che da sempre si confrontano intorno a quella che rimane una delle questioni più dolorosamente laceranti della bioetica. Ossia, sull’aborto ognuno continuerà a pensarla come prima, ma sull’applicazione della legge 194 si può esigere maggiore coerenza e rigore. E di fatto la nota non interviene con nessun giudizio sull’aborto, ma ricorda alcuni dei punti chiave della norma in questione. A cominciare dal titolo della legge, in cui si riconosce il valore sociale della maternità e tutela della vita umana dal suo inizio. Un punto sul quale è del tutto evidente come lo Stato in questi anni abbia fatto ben poco e le linee guida attuali ne compromettano ancor più il senso e il significato.
Il secondo punto critico per la nota della Pav riguarda i consultori. Ricorda infatti che l’art. 2 della 194, parlando del ruolo dei consultori familiari, affida ad essi un ruolo ben più ampio di quello dell’informazione: spetta infatti ai consultori il compito di contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza, mentre le attuali linee guida ne fanno una sorta di dispensario in cui si potrà somministrare la pillola su semplice richiesta. Un ribaltamento assoluto rispetto alla ratio che aveva animato la legge, almeno nelle intenzioni di una parte di quanti a suo tempo l’avevano votata.
Altro punto critico della nota è la denuncia del mancato impegno da parte dello Stato a dare alla donna e alla coppia tutto il sostegno possibile per prevenire l’aborto, superando quelle condizioni di disagio, anche economico, che possono rendere l’interruzione della gravidanza un evento più subìto che scelto, in quanto esito di circostanze avverse nelle quali diventa difficile o addirittura insostenibile l’idea di avere un figlio. La nota approfitta di questa circostanza, tutt’altro che positiva, per ricordare l’inverno demografico in cui è immerso il nostro Paese e del quale ormai molti cominciano a vedere tutte le conseguenze.
Ma dalla Pav giunge un’altra pesante critica alle linee guida ministeriali e riguarda il forte confinamento nella sfera privata di un gesto di grande rilevanza emotiva, sociale e morale. Secondo la nota, che non dà giudizi morali di sorta, consentire che l’aborto possa avvenire tra le mura domestiche significa allontanarlo ulteriormente, con tutti i problemi dei quali questa decisione si carica, dalla trama delle relazioni sociali e dalla sfera della responsabilità sociale, che la legge 194 chiama invece direttamente in causa.
In altri termini dal Vaticano, nel suo organismo più autorevole in questo ambito così delicato, arriva una denuncia senza appello delle recentissime linee guida e l’attacco si colloca proprio sulla mancata applicazione della 194 e sulla sua fuorviante interpretazione: del tutto assente la tutela sociale della maternità, stravolto l’uso dei consultori e soprattutto drammaticamente sola la donna nel momento in cui sul piano emotivo avrebbe più bisogno di sostegno. Con la sottolineatura che le politiche per la natalità stanno a zero e l’inverno demografico continua con tutte le sue conseguenze anche in chiave economica.
La cosa sorprendente è che la nota non entra in valutazioni di ordine etico o morale; la sua laicità è fuor di dubbio: non parla di sacralità della vita, non parla neppure di quella presenza del figlio che resta del tutto sullo sfondo; si limita ad una ricognizione della legge 194, che pure tanti dibattiti accese allora come oggi. E proprio per questo denuncia un fatto inequivocabile: sono anni che chiediamo una revisione della legge 194 per tante ragioni, sono passati oltre 40 anni e come ogni legge avrebbe bisogno di una rivalutazione. Ma nella logica della sinistra italiana si tratta di una legge-icona: intoccabile, come se fosse un vessillo del principio di autodeterminazione delle donne. Il dubbio oggi però è che la si voglia modificare bypassando il Parlamento, utilizzando lo strumento debole, ma veloce, delle circolari per evitare il confronto. Un confronto laico quello avviato dalla nota della Pav, efficace per ribadire valori e concetti; principi e modelli.
P.S.
Esiste una vulgata che sostiene che la legge 194 fu approvata anche con i voti della Dc; ma dagli atti pubblicati sugli Annali del Senato, il 18 maggio del 1978, in occasione del voto sulla 194, essendo il voto palese, è possibile ricostruire l’appartenenza politica di ognuno dei votanti. Risulta che, al di là di ogni ragionevole dubbio, dal riscontro fatto sul gruppo parlamentare Dc tutti votarono no, due non risultarono tra i partecipanti alla votazione, Scardaccione e Innocenti, e ovviamente non votò Fanfani, che presiedeva la seduta.
Senatori votanti = 308; Maggioranza = 155; Favorevoli = 160; Contrari = 148; il Senato approva.
La stessa legge 194 del 1978 aveva previsto (art. 15) la possibilità di aggiornarsi “sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donne e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”. Tre considerazioni hanno motivato, secondo la direzione generale della Prevenzione sanitaria del ministero, la predisposizione delle nuove “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”: “la raccomandazione formulata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in ordine alla somministrazione di mifepristone e misoprostolo per la donna fino alla 9a settimana di gestazione”, “le più aggiornate evidenze scientifiche sull’uso di tali farmaci”, e il “ricorso nella gran parte degli altri Paesi europei al metodo farmacologico di interruzione della gravidanza in regime di day hospital e ambulatoriale”.
Sulle nuove “Linee di indirizzo”, nella seduta straordinaria del 4 agosto 2020 è giunto il parere favorevole del Consiglio superiore di sanità (Css), che ha approvato il ricorso all’aborto chimico “fino a 63 giorni pari a 9 settimane compiute di età gestazionale” e “presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale e autorizzate dalla Regione, nonché consultori, oppure day hospital”. Dopo il parere del Css, è giunta – il 12 agosto – la determina n. 865 dell’Agenzia italiana del farmaco che annulla il vincolo dell’utilizzo del mifepristone in regime di ricovero fino alla conclusione del percorso assistenziale ed estende l’impiego del farmaco da 7 a 9 settimane di amenorrea.
Con la variazione, prevista dalla scheda tecnica approvata in sede europea, di obbligare all’utilizzo delle prostaglandine solo per via vaginale tra le 7 e le 9 settimane. La lettera del direttore Rezza termina con la raccomandazione di effettuare “il monitoraggio continuo e approfondito delle procedure di interruzione volontaria di gravidanza con l’utilizzo di farmaci”, con particolare sugli “effetti collaterali conseguenti all’estensione del periodo (dalle 7 alle 9 settimane, ndr) in cui è consentito il trattamento in questione”. E assicura che tale monitoraggio sarà preso in esame ai fini della relazione annuale del ministro al Parlamento sull’attuazione della legge 194. Negli anni scorsi non poche Regioni avevano derogato alle indicazioni ministeriali di prevedere il ricovero nelle procedure di aborto farmacologico. Si tratterà di vedere quante si atterranno a queste nuove indicazioni.