Gianni Vattimo ha concluso il suo viaggio su questa terra, esattamente come ogni uomo ha fatto ed è destinato a fare. Eppure, il viaggio di questo filosofo torinese nato nel 1936 non è passato inosservato: la sua è stata una vita tutta giocata tra presunzione e tormento. La sua presunzione ha lambito, per lunghi anni, il tema della verità. Una verità che pensava di aver trovato nell’affermare di non poter conoscere l’Essere con i paradigmi tradizionali che – in ossequio alla scuola heideggeriana – accusava in fondo di cosificare l’Essere stesso, rendendolo qualcosa di manipolabile, di gestibile. C’era qualcosa di onesto in quelle intuizioni e, proprio per questo, Vattimo non si fermava e osava di più, affermando come in fondo l’Essere fosse totalmente inconoscibile, se non per qualche piccola ed effimera contingenza.
Era un pensiero forte questo suo elogio del pensiero debole, dell’incapacità umana di conoscere. E Vattimo brandiva questo pensiero contro tutto e tutti, contro l’autorità della Chiesa cui si fregiava di appartenere, contro opinionisti, colleghi, accademici: più passavano gli anni, più sembrava che l’eroe di tanta intellighenzia italiana del secondo novecento fosse in fondo – proprio in forza della sua presunzione – un uomo solo.
Egli però aveva dimenticato che una cosa è vera non solo quando logicamente “funziona”, ma quando ti fa più contento, più consapevole, più vero. Quando ti lega di più alla realtà, alla vita. Non c’è verità che non porti con sé una teodrammatica, un legame struggente e appassionato alle cose. Vattimo aveva più volte dichiarato la vita inconoscibile, aveva più volte isolato la vita, lasciandola nel nulla, senza nessuno accanto. E la vita, in ossequio al suo pensiero, lo aveva reso più solo. E qui forse andrebbero inscritte tutte quelle passioni del filosofo, che cercava con l’amore di colmare il dolore di un’esistenza dove la realtà era assente. Ma l’uomo era davvero intelligente e, per questo, non poteva non avvertire un lungo tormento.
Marxista di formazione e per scelta, vedeva il futuro del mondo nel socialismo, in un’ideologia che restituisse agli uomini pari dignità ed uguaglianza. Con queste idee era entrato nell’agone politico, divenendo parlamentare europeo in diverse formazioni di centrosinistra. Eppure, se interpellato, si cullava nel ricordo di monsignor Pietro Caramello, suo maestro nell’apprendimento della filosofia, solidamente ancorato al pensiero tomista. La fede lo tormentava, l’esistenza di Dio per lui era un fatto ineludibile e innegabile. Ma nel furore della lotta aveva preferito non deporre le armi e continuare a combattere contro quella Chiesa che diceva di amare e di seguire. Come deve essere stato drammatico per lui percepire l’Amore, intuire la Verità, e non potersi arrendere.
Gli ultimi anni sono stati un lungo calvario, fatto di sospetti, di paure, di domande irrisolte. Quasi che quella Verità che lui aveva abbandonato avesse deciso di non abbandonarlo. Gianni Vattimo era un omosessuale risoluto, coraggioso, mai pago di dimostrare con ogni tratto della sua vita un altro modo di esistere e di pensare. Il tormento e la presunzione lo hanno accompagnato fino alla fine, impedendogli di cedere a quel bene che lo inseguiva da sempre.
E ora come lui, anche noi che guardiamo tramontare la sua ombra terrena, dobbiamo chiederci se in fondo tutto quel che sappiamo, tutto quel che pensiamo, sia sufficiente per voltare le spalle alla vita. Nel mistero di questi ultimi giorni l’uomo che incantò Torino con la sua estetica ha certamente cercato le parole giuste per svegliare sé stesso, destarsi dal disincanto e lasciarsi abbracciare. Che ci sia riuscito o no, questo non lo sappiamo. Quello che certamente possiamo dire è che il suo pensiero, pieno di dolore e di saccenza, adesso sembra davvero poca cosa rispetto al dramma della sua stessa vita.
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