Dopo il successo della prima puntata, Domenico Iannacone torna a Napoli per la seconda puntata di “Che ci faccio qui” e soprattutto torna nell’inferno delle Vele di Scampia, il mastodontico complesso edilizio dove da oltre trent’anni regnano degrado, povertà e illegalità “a cielo aperto”. Nella prima puntata il programma di inchiesta di Rai3 aveva incontrato Davide Cerullo, ex camorrista oggi scrittore, da qualche anno impegnato nel sociale per provare a far riemergere una luce in fondo al tunnel che tanto la sua esistenza quanto la sua comunità hanno vissuto e stanno vivendo. Oggi però con “Il Quinto Stato”, Iannacone torna a Scampia per occuparsi più da vicino di uomini, donne e bambini che vivono nelle condizioni semi-impossibili delle Vele. L’idea originaria del progetto prevedeva grandi unità abitative dove centinaia di famiglie avrebbero dovuto integrarsi e creare una comunità, in una sorta di “cittadella modello” per l’intera Regione Campania: grandi vie di scorrimento e aree verdi tra le varie “vele” (chiamate così proprio per la forma triangolare dell’edificio, larga alla base e restringendosi via via che si sale verso i piani più alti), un “sogno” purtroppo mai realizzato. I protagonisti del tentativo di “recupero” tra le Vele stanno rialzando la testa dopo anni in cui i più deboli e piccoli sono stati devastati da anni di degrado sociale, dall’abbandono dello Stato e alla sostanziale indifferenza dei quartieri adiacenti.
COSA SONO LE VELE DI SCAMPIA
Le Vele di Scampia sono dei palazzi costruiti nel quartiere periferico di Napoli tra il 1962 al 1975 e non da oggi rappresentano un “pugno allo stomaco” per l’immagine pubblica di Napoli, per il rispetto della legalità e per l’umana decenza di chi è costretto a vivere in condizioni di vita ai limiti dell’impossibile. Le originarie sette vele di Scampia (progettate dall’architetto Franz Di Salvo) facevano parte di un progetto abitativo di larghe vedute che prevedeva anche uno sviluppo della città di Napoli nella zona est; l’idea iniziale era anche sensata, la realizzazione e soprattutto il “mantenimento” produsse un dramma via l’altro che ha portato la situazione delle Vele al degrado totale di questi anni. Il terremoto in Irpinia del 1980 – che ha portato diverse famiglie, rimaste senzatetto, ad occupare alcuni alloggi delle vele – fu il primo evento che mise in crisi il progetto ambizioso ma senza riferimenti concreti in quel di Scampia. La droga, i clan della Camorra e le condizioni igieniche immonde hanno poi fatto il resto rendendo le Vele di Scampia un “degrado a cielo aperto” di cui Iannacone oggi intende raccontare da vicino con la sua consueta narrazione introspettiva, non banale e tesa a far emergere il cuore del problema prima ancora che la “denuncia sociale”.
UNA (PICCOLA) SPERANZA NEL DEGRADO DI NAPOLI
Grazie alla rivalsa di alcune associazioni, al coraggio di alcuni cittadini liberi e alla testimonianza di alcuni preti coraggiosi, le Vele di Scampia hanno cominciato a rivedere la luce, seppur molto fioca, nei primi mesi del 2019: il nuovissimo progetto Restart Scampia punta ad azzerare il passato e riqualificare l’area abbattendo 3 vele su 4 oggi esistenti (Tre delle sette Vele di Scampia sono state già demolite dal 1993 al 2005, ndr) e rimettendo a nuovo l’unico edificio che rimarrebbe. Da “Gomorra” ad un possibile futuro: «Non è una decisione calata dall’alto, ma il risultato di 35 anni di lotte e resistenza» spiegava all’Avvenire mesi fa Omero del Comitato Vele di Scampia. Per Padre Fabrizio Valletti (responsabile del centro gesuita di formazione culturale e professionale “Alberto Hurtado”), sentito dal settimanale “Vita”, «L’abbattimento delle vele è la liberazione da un fantasma che pesa sulla vita di tutto il quartiere». Ora bisogna mantenere la promessa e tenere il cantiere aperto il meno possibile: «le vele sono un simbolo negativo, di disagio e emarginazione per tutti quelli che abitano il quartiere. Se poi si riuscisse davvero ad abbattere tutte e tre le vele riqualificando, a beneficio dei cittadini, l’ultima, sarebbe davvero un segnale positivo», conclude Padre Valletti.