C’è sempre un prima, un qualcosa che prepara il terreno alla messa in atto di qualunque comportamento sociale o,  come nel nostro caso, a-sociale. C’è un brodo di cultura che mette, se non opportunamente gestito, controllato, educato, in moto meccanismi che procurano dolore.

E’ curioso che i primi fenomeni di bullismo come lo identifichiamo oggi si siano verificati nelle grandi democrazie dei paesi scandinavi, quei paesi additati da sempre come il massimo raggiungimento delle libertà, della convivenza e del progresso individuale, dove ogni forma di educazione bigotta, moralista è stata superata e altresì ogni forma di libertà personale è simbolo di una società “superiore”. E’ qui infatti che negli anni 70 che alcuni studiosi si soffermano su episodi fino ad allora neanche lontanamente concepiti: in Norvegia due studenti non più in grado di tollerare le ripetute offese inflitte da alcuni loro compagni si tolgono la vita. Il fenomeno passa nell’altrettanta democratica e civilizzata Gran Bretagna. Fa sorridere invece che nella Roma dell’800 “il bullo” era un personaggio positivo: figure come Meo Patacca e Rugantino, difensori dei poveri, il bullo romano non era considerato un prepotente, ma un coraggioso.



Il bullismo, come viene inteso oggi, è invece la manifestazione di una noia esistenziale che ha bisogno di sfogarsi andando a pescare nella costituzione ancestrale dell’essere umano: la violenza, la supremazia. Ma perché possa mettersi in moto deve a sua volta incontrare una debolezza che anch’essa fa parte del nostro Io. Se il bullismo che, come dicono gli studiosi, si verifica essenzialmente in ambito scolastico, dove la persona non è ancora sviluppata in modo tale da raggiungere una maturità psicologica, è certo che il contesto familiare gioca un ruolo primario, sia per il bullo, cresciuto nella violenza, nel doversi difendere da tutti e da tutto, specie in ambienti criminali, la vittima cresce spesso in contesti dove i genitori fanno di tutto per renderlo debole, incapace di affrontare la realtà. Chi scrive queste righe ha incontrato il bullismo all’oratorio, un luogo che dovrebbe essere all’antitesi di ciò. Alcuni ragazzi più grandi, dopo aver visto come ero scarso a giocare al pallone, mi misero subito fuori squadra insultandomi profondaImposta immagine in evidenzamente, minacciandomi di non farmi più vedere al campetto. Corsi a chiedere aiuto al frate che gestiva l’oratorio e il risultato fu che venni accusato di fare la spia. Non tornai mai più all’oratorio, ma poco tempo dopo trovai un gruppo di amici, una comunità legata a valori che nell’oratorio non si trovavano più, che mi abbracciarono nella mia fragilità e mi fecero diventare uomo. Senza fare risse.



Il caso di Antonello Venditti raccontato nell’intervista a La Stampa, era ben noto perché lui stesso ne aveva parlato molte volte. Una madre onnipotente e onnipresente che ne tarpava la crescita, la classica madre che non ha mai staccato il cordone ombelicale dal figlio, ponendosi come ombra oscura sulla sua crescita. Per il piccolo Venditti l’unica forma di difesa era rifugiarsi nel cibo. Ai tempi della scuola superiore era un ragazzino obeso, la perfetta vittima del bullismo: “Sono stato un adolescente molto solo, bullizzato fino a 16 anni. Ero talmente complesso e complessato che ho rischiato il suicidio molte volte. Le canzoni sono nate da quel dolore”. In un’altra intervista ha ben spiegato il meccanismo di cui era vittima: “Mia madre sperava nei miei fallimenti, considerava le mie canzoni poco meno che spazzatura e a mio padre Vincenzo, convinta di non essere ascoltata, diceva di me: ‘Il ragazzo è cretino’. Mi chiamavano Cicciobomba, pesavo quasi cento chili”.



“Scaricavo nelle canzoni ciò che avevo dentro e la prospettiva del suicidio, invece di sembrarmi drammatica, mi pareva la soluzione del problema. Mangiavo tutto il giorno. La domenica poi era drammatica. Mi svegliavo nei profumi del ragù che mia nonna aveva messo da ore sul fuoco, ci inzuppavo tre rosette e poi poco prima di mezzogiorno uscivo per andare a messa. All’andata, facevo sosta dal gelataio più buono del quartiere e mi facevo fare una coppa con cioccolato, nocciola e panna con l’amarena e due cialde. Al ritorno idem. Poi il pranzo: la pasta, il filetto, le patatine fritte. Visto che nessuno mi fermava, lo feci io. Arrivato a 94 chili, ma forse anche a 98, dissi basta: ‘Ma non vedete che sono un baule?’”.

Nella canzone Mio padre ha un buco in gola, che parla della sua famiglia, ha scritto che aveva “una madre-professoressa, o meglio: una professoressa-madre. Mi ha dato sempre 4”. Perché? “Ero figlio unico e mi trattava come un alunno più o meno scadente: un demente. Qualsiasi cosa facessi non ero all’altezza. E io mi sono sentito sempre inadeguato rispetto a lei, che evidentemente aveva aspettative diverse sul mio futuro”.

Bullo e vittima del bullismo sono due debolezze che si incontrano e si scontrano. Alla domanda come si senta quando un ragazzo bulizzato si toglie la vita, dice: “Mi sento come mi sentivo allora, quando volevo morire. Devi essere molto forte dentro, credere in te stesso e credere in quello che sei, sono convinto che si suicidano solo i giusti, quelli che hanno ragione. I colpevoli sono più furbi, magari tentano il suicidio, ma poi sopravvivono. Il suicidio è nella nostra natura purtroppo.  Ma a volte basta una parola per sopravvivere. Ecco perché c’è bisogno di amici, di una società che si interessi di te anche se sei piccolo. Ci vorrebbe un amico, sempre” conclude citando una sua famosa canzone, Ci vorrebbe un amico.

Difficile, praticamente impossibile che una legge, per di più punitiva come il ddl Zan possa risolvere questo cortocircuito, tra il bullo e la sua vittima, due aspetti della stessa solitudine e disperazione. Una legge che Venditti accetta e rifiuta allo stesso tempo: “C’è bisogno di atti formali in questi tempi così confusi che ribadiscano la civiltà. Mi sembra così normale che mi sembri assurdo passi da una legge”. E ancora: “Il rispetto per l’altro dovrebbe far parte di ognuno di noi, è assurdo scrivere una legge per tutelare i gay”. Appunto.

Siamo davanti a una società che ha ormai perso da tempo qualunque valore di solidarietà, di fraternità, di amicizia. Siamo l’espressione di una società in cui, di fatto, sono dominanti i valori della sopraffazione e dell’arbitrio del più forte sul più debole, in cui i modelli vincenti, spesso veicolati anche attraverso i mass media, sono quelli dell’arroganza e del non rispetto per l’altro. Ma non è con la repressione, la punizione, previste dal ddl Zan che ne usciremo fuori. Lo potremo fare solo se c’è un amico pronto a farsi carico della nostra debolezza e capace anche di affrontare “il bullo” cercando di rieducarlo. Ci vorrebbe un amico, ma mai come oggi siamo soli, maledettamente soli.

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