Chi è, di quelli, che dice di essere Dio? Di certo, tra la folla casuale, tra quanti si sono aggregati al corteo o ne hanno incrociato il cammino verso il Golgota, qualcuno avrà sussurrato queste poche parole a una persona vicina; una domanda quasi sovrapensiero, una curiosità appena, dettata dal clamore degli ultimi fatti cittadini, dalle chiacchiere e dai commenti sentiti per la strada.
Non immaginava sarebbe diventata la domanda più decisiva, in quello stesso luogo e ovunque nel mondo. E che ognuno gli avrebbe invidiato quell’occasione, potersi rivolgere a qualcuno che forse l’aveva sentito parlare o assistito ai suoi prodigi; scoprire se in quell’uomo ci fosse qualcosa di diverso.
In questo, in fondo, il personaggio che più rappresenta noi uomini moderni nel teatro della Passione è il disincantato e insieme annoiato tetrarca di Galilea, cui è difficile vendere frottole, che sa bene come si stia al mondo, e che però ogni giorno spera che accada qualcosa di diverso, di imprevisto, che rompa la banalità della vita. E come Erode davanti al Cristo, anche noi incuriositi, un po’ eccitati, saremmo pronti a fargli mille domande, sperando di vedere qualche miracolo fatto da lui, una qualche magia che ci stupisca, che dissolva infine il nostro scetticismo.
Com’è accaduto al centurione sotto la croce: cosa l’ha convinto che davvero era il Figlio di Dio, cosa ha visto? Cosa aveva di diverso quell’uomo rispetto agli altri condannati? Il suo dolore era forse più lacerante, la sua angoscia, in qualche modo differente?
Ma come si riconosce il dolore di un Dio?
Forse, come scrive Péguy, “è che il Figlio di Dio sapeva che il dolore del figlio dell’uomo è vano a salvare i dannati, e turbato più di loro nella disperazione, morendo pianse sugli abbandonati… pianse sulla morte di Giuda … e gridò folle la sua spaventosa angoscia…”.
Un dolore che si dispera, grida, che aveva la loro stessa disperazione; che raccoglie tutte le paure e le angosce dell’uomo, i suoi sentimenti, i suoi errori, i suoi cedimenti; che se li porta sulla croce, che ci permette di riconoscerli uguali, familiari ai nostri. E insieme un dolore che ama, che dentro ogni tradimento, ogni invidia, ogni peccato per grande che sia, ama la carne che se n’è macchiata, riesce a vedere l’uomo ancora, sotto tutta la sua lordura. Fino ad amare chi lo tradisce, chi lo condanna e lo inchioda al legno.
Un dolore, quello di Dio, nel quale l’uomo riconosce se stesso. E un dolore che accade, di nuovo, ovunque un uomo vi ritrovi non solo la propria miseria, ma quel punto nel quale è ancora simile a Dio, nel quale vi riveda l’immagine, ancora, del proprio Creatore. Un dolore specchio dell’uomo, perché specchio di Dio.
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