Dal Veneto suona un campanello d’allarme che fa eco praticamente in tutt’Italia: le dimissioni volontarie degli OSS, gli operatori sociosanitari. Una recente interrogazione in Consiglio regionale riporta che “quasi 2.500 infermieri sarebbero letteralmente scappati dalla sanità pubblica tra il 2019 e il 2021”, in un territorio che ha visto il numero di OSS nel Servizio sanitario nazionale passare da 22.225 a 19.827.



Sotto accusa il regime stressante di mansioni sempre più complesse, gli orari everlasting, il superlavoro dettato dal Covid. Ma anche gli espedienti sperequativi attuati dalle aziende, come i “super-OSS” (detti anche OSSS, o 3S: sono gli OSS con formazione complementare in assistenza sanitaria, un gradino più di OSS), cioè i quasi-infermieri, o ancora gli infermieri gettonisti, super pagati, al pari dei medici turnisti a gettone. Il sindacato Nursing Up denuncia che “mentre i nostri infermieri, in territori come il Veneto, il Piemonte, la Lombardia, fuggono all’estero o si dimettono, per coprire le falle, paradosso dei paradossi, vengono assunti infermieri esterni di agenzie interinali a 6mila euro lordi al mese”.



La sanità è un esempio macroscopico, ma nel 2022 a lasciare volontariamente il proprio posto di lavoro sono stati oltre due milioni di italiani. Restando nel Veneto, l’agenzia VenetoLavoro informa che nel 2022 le cessazioni di contratti a tempo indeterminato complessivamente sono state 191.500, il livello più alto dal 2008, il 12% in più rispetto al 2021 e il 17% in più rispetto al 2019. A registrare una crescita particolarmente sostenuta sono state le dimissioni, complessivamente 137.300 nel corso dell’anno, con una crescita del +15% rispetto al 2021 e del +35% sul 2019. Anche il loro peso sul totale delle cessazioni da tempo indeterminato è progressivamente cresciuto, passando dal 62% registrato nel 2019 al 72% dell’ultimo anno.



La nota positiva è che quasi un lavoratore su due (il 42%) ha però trovato un nuovo impiego entro 7 giorni dalla data di dimissioni dal precedente contratto, percentuale che sale al 56% a distanza di un mese e che in entrambi i casi è superiore a quella rilevata nel 2019. “È dunque presumibile – sostengono gli esperti dell’agenzia veneta – che circa la metà dei dimissionari abbia lasciato il proprio posto di lavoro perché ne aveva già trovato un altro”.

Il 59% delle dimissioni avvenute nel 2022 ha riguardato lavoratori dei servizi, principalmente dei settori dei servizi turistici, dell’ingrosso e della logistica e dei servizi alla persona, mentre il 40% lavorava nell’industria (Made in Italy e metalmeccanico). Il maggior incremento rispetto al 2019 si è registrato in particolare nel metalmeccanico, industrie della chimica, della plastica, della carta e della stampa, commercio al dettaglio, terziario avanzato, sanità e, seppure con un volume più contenuto, la Pubblica amministrazione. Proprio tali comparti risultano anche quelli che registrano tassi di ricollocazione più elevati: 64% entro 7 giorni dalla Pubblica amministrazione, 57% dal metalmeccanico e dalle utilities, mentre il turismo è il settore che presenta i tassi più bassi (30% a 7 giorni e 46% a un mese).

In termini anagrafici, la crescita delle dimissioni ha interessato in misura maggiore le donne, che hanno visto aumentare anche il tasso di ricollocazione a 7 giorni dalla cessazione del precedente contratto dal 35% del 2019 al 38% del 2022. Più dell’80% delle dimissioni avvenute nel 2022 ha riguardato lavoratori italiani, che registrano anche tassi di ricollocazione più elevati rispetto agli stranieri, mentre in termini di età il 63% dei dimissionari ha tra i 30 e i 54 anni, il 20% è under 30 e il 17% è over 54 anni.

Ultima nota dolente: i giovani presentano tassi di ricollocazione inferiori rispetto agli adulti (43% contro 49%), mentre per molti lavoratori con più di 55 anni spesso le dimissioni precedono l’uscita dalle forze lavoro e per questo le quote di quanti si rioccupano sono nettamente inferiori. Escludendo tali lavoratori, le percentuali di ricollocazione dei dimissionari salgono al 47% a 7 giorni di distanza e al 63% dopo un mese, con picchi del 70% per gli operai semi-specializzati.

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