Le tensioni tra Russia e Occidente destano una certa preoccupazione per le conseguenze che potrebbero esserci sull’economia in caso di un’ulteriore escalation. L’export italiano rischia, in caso di sanzioni verso Mosca, di subire contraccolpi principalmente nei settori dei macchinari e del tessile-abbigliamento-calzature.
Ma i veri problemi, come ricorda Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, sarebbero quelli relativi ai rincari energetici e all’inflazione. «Questa escalation non è certamente positiva, anche perché in questo momento l’Europa avrebbe avuto bisogno come il pane di un periodo di tranquillità per proseguire la fase di ripresa economica successiva al Covid».
L’Italia rischia di pagare un prezzo più alto rispetto ad altri Paesi in caso di sanzioni verso la Russia?
Quando ci sono state sanzioni verso Mosca nel recente passato, il settore delle calzature marchigiane è stato tra quelli che ha subito il maggior contraccolpo. Ci sono anche altri comparti, come la meccanica, i mezzi di trasporti e le macchine per l’edilizia che hanno sempre avuto nella Russia un importante mercato di sbocco che potrebbero risentirne, ma non credo che la situazione italiana sia peculiare rispetto alle altre: tutti i Paesi europei soffrirebbero, anche perché il maggior elemento di preoccupazione riguarda il prezzo del gas. Se finora si ipotizzava uno scenario di sei mesi di tensioni sul costo di questa importante materia prima, ora si rischia di averlo di almeno 12 mesi.
L’elemento più preoccupante è probabilmente collegato agli effetti a cascata che il rialzo del gas può avere sugli altri prezzi.
Esattamente. Pochi sanno che l’agricoltura è uno dei settori più energy intensive che ci siano: basta pensare ai fertilizzanti che vengono prodotti con il gas, alle serre che vanno riscaldate o alle macchine agricole che consumano carburante. Tutto questo può avere un impatto importante sull’inflazione e rallentare i consumi delle famiglie. È una sorta di doccia fredda sull’economia europea che aveva chiuso il 2021 con un bilancio molto positivo.
Un’ulteriore fiammata inflattiva può anche accelerare il cambio di rotta delle politiche monetarie da parte della Bce.
Su questo mi sento meno preoccupato, nel senso che credo che le Banche centrali sappiano distinguere la componente strutturale dell’inflazione, dovuta a una ripresa della domanda dopo anni di crescita stentata, da quella transitoria frutto di questo frangente particolare. Credo che la Bce ci penserà molto bene prima di correre il rischio di tarpare le ali alla ripresa dell’economia.
In una precedente intervista ci aveva spiegato quanto fosse importante il Pil del primo trimestre nel determinare il dato complessivo di un anno. A questo punto la crescita del 2022 è compromessa?
Il Pil del primo trimestre, a causa del rallentamento della produzione industriale, di diverse aziende che sono partite tardi dopo le vacanze di Natale, che hanno tenuto chiuso parte degli impianti o producono a ritmi ridotti, sarà fatalmente debole. È ancora presto per dire se avremo un calo congiunturale, una crescita zero o da zero virgola. Di sicuro un exploit come quello del 2021 diventa più difficile da ripetere quest’anno. Detto questo conserverei comunque un certo sangue freddo.
In che senso?
Nel senso che non ci troviamo di fronte a un’economia italiana impiombata. Certamente è in difficoltà, come altre, ma ha degli elementi di robustezza che non c’erano mai stati negli ultimi 20 anni. Usciremo vivi da questo 2022, anche se con qualche livido. Mi preoccuperei di più delle mosse dei partiti e dei danni che possono arrecare alle decisioni del Governo e a un’immagine che non abbiamo avuto negli ultimi 30 anni, grazie alla presenza di Draghi. Se le forze politiche pensano già alla campagna elettorale si rischia un danno forse maggiore di quello che può derivare dall’aumento del prezzo del gas.
Resta comunque importante l’intervento pubblico, l’accelerazione del Pnrr per dare ossigeno all’economia?
Questo è fuor di dubbio. Mentre il settore privato negli ultimi anni si è rafforzato ed è assolutamente performante, quello pubblico non riesce a produrre valore aggiunto, principalmente per due ragioni. La prima è che c’è stato poco turnover e scarseggiano gli ingressi di professioni di livello, cosa che si riflette negativamente sull’efficienza dei servizi. La seconda è che da 15 anni ormai gli investimenti pubblici latitano. Su questi due fronti il Pnrr può portare a un miglioramento della situazione e un’accelerazione della sua messa terra può aiutare a compensare, a questo punto nel secondo e terzo trimestre, quello che prezzo del gas e inflazione toglieranno alla crescita. Se prima il Pnrr era importante per darsi un orizzonte futuro, ora lo diventa anche per non restare impantananti nel presente.
(Lorenzo Torrisi)
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