Ci siamo interrogati tanto a lungo su che cosa contava per la riproduzione delle culture e soprattutto delle macchine politiche: i partiti. Stare all’opposizione, come aveva fatto, costretta dagli eventi e dall’avvicinarsi della terribile Prima guerra mondiale, la Seconda Internazionale Socialista con i suoi partiti, creando una controcultura di governo dall’opposizione su cui la storiografia austriaca e tedesca ha scritto pagine meravigliose a partire dal grande Franz Mehring? Oppure, come ci insegnava il Centro tedesco, forte della mediazione tra luteranesimo e cristianesimo sociale, stare e voler rimanere al governo, nel buio della crisi di quel dopoguerra: un governo democratico che solo lo stalinismo e la violenza nazista poterono sconfiggere?
Non a caso ricorro a degli esempi tedeschi, perché la macchina dei partiti ancora più funzionante e classicamente riproducentesi appartiene alla Germania, che dopo la riunificazione ha trovato una stabilità della circolazione delle sue classi politiche quale mai aveva visto prima, nonostante la crisi che recentissimamente ha investito anche quelle macchine di partito.
La risposta all’enigma tedesco della circolazione politica funzionante in una società complessa vien ancora una volta dalle subculture politiche, ossia sempre dalla formazione della macchine dei partiti così come l’aveva descritta Moisei Yakovlevich Ostrogorski ai primi del Novecento nel suo classico sulla democrazia e i partiti politici. La lezione l’aveva capita più di tutti Togliatti, che in Francia, mentre scappava dai sovietici una purga dopo l’altra, doveva averlo letto e imparato a memoria: “I partiti sono la democrazia che si organizza”, giustamente diceva il Migliore.
Senza partiti niente democrazia, come diceva anche Quagliariello agli inizi degli anni Novanta del Novecento quando ne curò l’edizione italiana degli scritti. Per questo in Italia non funziona nulla né al governo, né all’opposizione: non ci sono più i partiti e quindi non ci sono più le subculture politiche e – ancora – non ci sono i programmi di governo, si stia al governo del parlamento o sia stia all’opposizione del e nel parlamento.
Eppure quando arriva una pandemia bisogna pur che si abbia un programma di governo, tanto dal governo quanto dall’opposizione e meglio sarebbe che lo si avesse insieme costruito quel programma, per dividersi dopo la pandemia. In Italia non c’è né un governo, né un programma condiviso o no ch’esso sia.
È pur vero che questa ipotesi irenica non ha mai funzionato: nella grande crisi del 1929 i repubblicani nordamericani continuarono una politica economica suicida e quando il tanto amato Roosevelt del tanto amato New Deal salì al potere eletto dai poveri del popolo nordamericano, i repubblicani continuarono imperterriti a denunciarne le politiche miracolose dinanzi alla Corte Suprema, al di là di tutte le crisi minacciose e terribili. Ed è pur vero, come ricordava Le Monde del Primo Maggio di questo anno, ossia ieri, con indignazione, che il ministro degli Esteri svedese, interrogata dai giornalisti all’Eliseo su che cosa l’Europa avesse dovuto fare dinanzi alla pandemia, rispondeva con impeccabile luteranesimo o ateismo professo: “È il singolo Stato nazionale che deve occuparsene”. Ed è finita lì con tutte le retoriche europeistiche conservatrici di quelli che non vogliono cambiare nulla.
Tutto congiura contro coloro che invocano una politica di unità nazionale contro la pandemia. Ma bisogna far finta che invece averla sia possibile, questa unità nazionale, cercando di tener conto che quei benedetti partiti contro cui si è per decenni abbaiato alla luna dell’antropologia negativa della casta che domina il mondo, come le mafie, oggi nella pandemia, come se le persone per bene non esistessero e il Covid–19 le avesse fatte morire tutte mentre la realtà dimostra che così proprio non è, quei partiti non esistono più.
Quindi da buon piemontese del “ca custa lon ca custa viva l’Aousta” (che costi ciò che costi, viva l’Aosta Savoia e non i Savoia Carignano) un programma bisognerà prima o poi proporlo. Un programma che inizi fondandosi sulla fiducia delle persone. Siano esse persone delle imprese che sanno auto–amministrarsi più di qualsiasi burocrazia statale o regionale che dir si voglia di destra di sinistra o di centro. Soprattutto il piccolo e medio imprenditore, l’artigiano sa organizzare da sé la sua impresa perché sa che senza i lavoratori e le loro famiglie le imprese non si riproducono e non si dirigono secondo le routine che funzionano per forza propria una volta trovata la collocazione nei mercati.
Quindi la cosa importante è consentire alle imprese di auto–amministrarsi non con l’aiuto (?) della burocrazia statale o parastatale, ma con i funzionari delle loro organizzazioni di rappresentanza, ossia i famosi corpi intermedi che per anni si è cercato inutilmente di conculcare e umiliare senza riuscirci. E lo stesso va detto per le rappresentanze dei lavoratori di qualsivoglia orientamento siano.
E poi bisogna assicurare il liquido natale e amniotico alle imprese che producono merci e stock di capitale fisso, ossia la liquidità che deve esser garantita dalle banche, che devono ritornare a essere, prima che imprese, istituzioni finanziarie abilitate al risparmio e alla sua difesa, così come alla circolazione monetaria ossia alla liquidità, senza la quale le imprese non sopravvivono alle crisi, tanto di offerta quanto di domanda, come accade con le pandemie.
Sarebbe l’occasione per dare una bella rivisitata alle leggi bancarie smantellando tutte le unificazioni nefaste tra banche d’affari e banche commerciali e si ritornasse a prima della famigerata legge Amato, che sarà ricordata, quando si studierà la distruzione non solo delle banche, ma dell’Occidente, come una pietra miliare dello smantellamento di quel sano rapporto tra banche e imprese su cui si è confidato insieme alla Banca commerciale e Mediobanca per il miracolo economico dell’Italia del dopoguerra, sempre ricordato a sproposito e con una retorica di cui non se ne può più. Inevitabile sottolineare che questo è il solo modo per iniziare a costruire una Banca centrale europea che sia la banca di coordinamento delle banche centrali nazionali, abolendo tutta la legislazione europea in proposito.
Lungo programma. Un passo alla volta, ma nella giusta direzione. E lo Stato? Lo Stato di cui si straparla ogni giorno? No alle nazionalizzazioni. Ma allora a che cosa bisogna ritornare quando la gerarchia deve correggere i fallimenti dei mercati? A che Stato? Ma a uno Stato non “régie nationale” alla francese con un colbertismo soffocante, ma allo Stato che si trasforma in “not for profit” nel suo governare per enti, e supera, per quanto riguarda – per esempio – le infrastrutture, il modello concessioni del monopolio privatizzato oltre a quello del monopolio pubblico, creando agenzie per il not for profit dirette da uno e uno solo amministratore che devolve tutti gli utili al patrimonio e alla manutenzione, oltre che ai salari e alla remunerazione di una coorte manageriale più ristretta che mai, perché ormai l’esperienza insegna che meno sono e meno sono pagati, i manager, meglio dirigono e lavorano senza diventare dei mercenari.
E poi ritornare a una vera e buona legislazione per cooperative sane secondo i principi dell’Alleanza Internazionale Cooperativa, di cui si è fatto strame in questi anni: è sufficiente ripristinare la Legge Basevi 1577 del 14 dicembre 1947 e basta: giù le mani dei giuristi dal malloppo delle consulenze.
E il debito? “Stiamo sprofondando nel debito”, sento dire da agenti di commercio compiaciuti. Innanzitutto di debito non si è mai morti, se il debito è in mani sicure e affidabili come possono essere nel nostro caso quelle degli italiani che preferiscono acquistare titoli di stato, come si faceva un tempo, garantiti da un connubio virtuoso tra banca centrale e Tesoro – ed ecco la prima riforma post pandemia da fare in merito al debito –. E poi si inizi a negoziare tra tutte le nazioni che hanno firmato la famosa proposta dei nove che si sono schierati non a caso con la Francia, perché la Francia e nessun altro può guidare un’alleanza delle nazioni dell’Europa del Sud – con l’Italia e la Spagna – per riformare la politica economica europea senza strepiti e senza follie come quella di uscire dall’euro.
Un buon programma di governo inizia dalla riforma della politica economica europea, seguendo le linee guida che Giulio Tremonti, per esempio, e non da solo ma quasi, ha indicato nei suoi scritti degli ultimi dieci anni e molti studiosi come lui, su queste amate pagine libere, hanno sviluppato tra mille difficoltà e minacce. Sarà servito a qualcosa?