Nella modernità la politica e la scienza hanno inteso pensarsi come assoluti. In parte, ciò è avvenuto perché entrambe avevano trovato autonomia nella secolarizzazione, smarcandosi dai vincoli etico-religiosi. E tuttavia questa accresciuta autonomia ha aumentato le reciproche intromissioni e le inevitabili prove di forza. Se l’enciclopedismo necessariamente precede il codice napoleonico, in altri casi i rapporti logico-temporali, oltre che ideologici ed egemonici, sono stati meno cristallini. Il nazismo ha facilmente imposto a una claque di scienziati sedicenti e compiacenti di certificare la presunta superiorità della razza ariana. Stati Uniti e Unione Sovietica si contesero il primato nella spartizione del mondo rincorrendo lo spazio, la luna e l’aeronautica. E tuttavia è talvolta avvenuto pure il contrario: che fosse la scienza, tradendo nuovamente se stessa, a costituirsi come dogma, a imporre la sua algida mancanza di valore metafisico in tempi di smarrimento della partecipazione politica.



Qualunque tecnica si concepisca al di là e al di fuori della dignità umana (inafferrabile quanto irrinunciabile principio per cui è parimenti irrinunciabile la continua e costante ricerca di significato e di senso) manovra gli animi, assolutizza le sue premesse, pretende di rendere universali e non revocabili le sue promesse di benessere. Il momento di queste “esondazioni”, di queste corresponsabilità all’autodistruzione, è sempre e solo uno: il momento della fragilità. In specie, la fragilità dettata dalla paura.



Andando all’attualità del momento storico nel Paese, la prima innegabile impressione maturata, dopo la desecretazione dei documenti del Comitato tecnico-scientifico, è che ci si sia mossi per settimane e forse mesi (all’incirca da fine gennaio a fine marzo) in assoluta incertezza, confusione e precarietà. I tecnici investiti del potere di prospettare soluzioni inconfutabili hanno suggerito, e almeno in alcuni casi con una certa, giustificabile, prudenza.

Il loro “suggerimento”, però, diventava precetto, totem, nel momento in cui interpretarlo in un modo o in un altro diventava pure la foglia di fico di errori e omissioni della classe politica. Una politica lacerata e dilacerante ha bisogno di proteggersi dal sale del confronto diretto (ben diversa cosa dalle forme capziose e sciacallesche di opposizione) e allora ha necessità di intestarsi il merito di dover agire “pro veritate” e “pro auctoritate”. Una verità e un’autorità, ça va sans dire, col bollino rilasciato dalla scienza.



Nel nostro caso, il comitato suggeriva prudenzialmente chiusure più celeri e circoscritte (cd. zone rosse per schermare i focolai), mentre l’esecutivo provvide solo in una seconda battuta a un indistinto blocco omologo, dove guarda caso le stesse attività proseguivano e le medesime venivano sospese. C’è dietro forse una ragione tattica e non strategica, tanto nella politica quanto nella scienza. Misure differenziate, pur legittimate dalla sostanziale dislocazione dei contagi, avrebbero inevitabilmente aperto a un ancora più chiassoso balletto di subnormative regionali scentrate e a un vorticoso contenzioso amministrativo e costituzionale a fine emergenza.

D’altra parte, suggerire medicalmente proposte salvifiche al tempo in cui di un virus non si conoscono i caratteri fondamentali (aggressività, diffusività, protocollo terapeutico) significa far degli scienziati pubblicamente titolati dei nuovi scribi del vuoto. Come sia andata realmente nelle ore delle scelte, quelle scomode e quelle di comodo, non ce lo dirà appieno solo una formale desecretazione. E pericoloso sarebbe alimentare uno scaricabarile sin qui costato, per il tramite dell’epidemia, quantomeno 36mila morti e dodici punti di Pil (ché l’uno e l’altro dato, uno drammatico e uno impressionante, pare forse potessero esser fronteggiati meglio).

La conclusione fondamentalmente amara che resta è sostanzialmente d’altra natura. Politica e scienza rischiano di delegittimarsi e ledersi contestualmente se alternano il farsi vicendevole stampella al farsi rispettivo alibi. L’autonomia del politico nel costituzionalismo dello Stato sociale di diritto è cernita di soluzioni percorribili senza detrimento del servizio essenziale, del nucleo fondante di pubbliche prestazioni, in un equilibrio dialettico tra chi governa e chi no, tra partecipazione e prevenzione. E non meno a rischio purtroppo è l’autonomia della scienza: essa non ha nel suo statuto di farsi progetto di governo o di dominio, ma sperimentazione matura, senza pose metafisiche o parareligiose, ordinata semmai ai suoi fini istitutivi. Se non c’è un colpevole, forse non vuol dire che siamo tutti innocenti, ma che di colpevole magari ce ne sta più d’uno.

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