Una famiglia numerosa quanto le tazze che la mattina, dopo la mungitura della mucca, mamma Adele riempie a ciascuno, con gesti lenti e sapienti, in un villaggio di montagna del Trentino, Vermiglio. Sono loro, i Graziadei, i protagonisti del film dallo stesso nome, Vermiglio, l’ammaliante secondo lungometraggio di Maura Delpero, che concorre meritatamente per l’Italia all’Oscar internazionale.



Scandito lungo quattro stagioni (come quelle di Vivaldi che il padre Cesare ama con passione, lui così rigido e riservato), nell’ultimo anno di guerra a cavallo tra il 1944 e il 1945, ci immerge con delicatezza e profondità nei luoghi d’infanzia della regista: i paesaggi meravigliosi della montagna ostile ma affascinante della Val di Sole, al confine con la Lombardia. Qui, nelle semplici abitazioni rurali, a stretto contatto con gli animali, si patisce il gelo, ma ci si scalda dormendo in tre in un letto, sussurrando parole in dialetto per comprendere la vita. Adulti, adolescenti e bambini insieme per resistere al dolore, che non risparmia nessuno, ma anche per godere della bellezza della vita, soprattutto quando c’è un matrimonio (splendida la scena del banchetto nuziale all’aperto) o arriva un nuovo fratellino, magari il decimo. Il secondo conflitto mondiale c’è ma non si vede: lo si percepisce solo per l’assenza degli uomini che sono dovuti partire o per le condizioni di vita ancor più difficili, che soprattutto le donne rimaste a casa devono sobbarcarsi.



Si coglie la portata di sofferenza ed estraniazione della guerra quando il borgo è scosso dall’inaspettato ritorno a casa del cugino Attilio, ferito gravemente, portato sulle spalle dalla Germania da Pietro, un taciturno soldato siciliano: il ragazzo è considerato da tutti un eroe, soprattutto dai bambini del paese che gli fanno festa, anche se in realtà semplicemente è fuggito. E sarà proprio la famiglia Graziadei a ospitarlo per decisione del capofamiglia Cesare, il maestro burbero e colto, conscio del suo compito educativo e culturale in quel contesto umile e dignitoso; al punto da ritenere importante far ascoltare a scuola ai suoi alunni di diverse età, riuniti in un’unica classe, il disco di Vivaldi – “pane per l’anima” – per far loro assaporare la bellezza della primavera e sollevare lo sguardo verso l’alto.



La faticosa vita quotidiana scorre lentamente, tra nascite e morti, ed è capace di accogliere anche uno “straniero” (perché in fondo in quel tempo non così lontano un meridionale veniva considerato tale) e per di più da alcuni considerato un disertore. Il maestro, però, all’accusa di vigliaccheria rivolta da certi anziani compaesani al reduce siciliano, ribatte con sicurezza: “Forse se fossero tutti vigliacchi non ci sarebbe più la guerra”. Lucia, la figlia maggiore, scoprirà le prime emozioni dell’amore proprio per Pietro, quell’estraneo, e le condividerà nelle confidenze serali con le sorelle, l’inquieta Ada e la curiosa Flavia, che eccelle negli studi.

Il padre privilegerà naturalmente Flavia, quando sarà costretto a scegliere quale dei figli potrà proseguire gli studi, data la scarsità dei mezzi. Quello di Vermiglio è inevitabilmente un mondo di rinunce e disparità, quasi da lotta per la sopravvivenza quotidiana, in cui però l’autorità paterna, tutto sommato saggia, era accettata senza troppi drammi, come garanzia di quell’unità familiare, sola risorsa certa per affrontare i drammi della vita. I più piccoli stanno a guardare e vogliono capire, senza temere di far domande anche indiscrete ai fratelli più grandi, che rispondono come possono e per quel che sanno. Tenerissima la figura del più ingenuo e curioso dei figli del maestro, che per avere risposte si rivolge sempre a Dino, il fratello ribelle e scapestrato che il padre tratta con severità implacabile; ma sarà proprio Dino a regalare fiori (rubati…) alla mamma sfiancata dal decimo parto, e solo in quest’occasione capace di un piccolo appunto al marito. Tuttavia, non domina mai la rabbia per presunte ingiustizie, né si sentono urla e strepiti per una convivenza così stretta, anche se ci sono da sfamare nuove bocche e si devono seppellire i propri morti, compresi i neonati stroncati dalla malattia, ma il cui ricordo resta vivo come presenza di angeli, custodi della famiglia.

Nel film non si fanno sconti alla cultura tradizionale incarnata nel paesino trentino, con estrema sensibilità si rivelano debolezze, connivenze e piccole ipocrisie. Non tutto può essere detto e ciascuno ha i suoi segreti più o meno limpidi. La religiosità è vissuta e mirabilmente professata in latino in chiesa, proprio da quelle persone che non sanno neppure l’italiano e parlano solo il dialetto, che ascoltiamo durante tutto il film senza difficoltà. Ma non sembra, quella fede, essere cosciente fondamento della vita, capace di rinnovarla: la secolarizzazione di oggi ne è una triste conseguenza. Eppure resta come orizzonte imprescindibile che rende capaci di affrontare ogni fatica, in un mondo per noi remoto, dove ci si può perdere, come accade a Lucia, ma per poi ritrovarsi. Ma come facevano – viene da chiedersi – con una vita così misera a non perdere la speranza?

La bellezza struggente di luoghi d’inverno così puri ma ostili e d’estate sereni e paradisiaci, la semplicità dei rapporti, i silenzi interrotti solo dai suoni genuini della natura, gli sguardi profondi e la vicinanza stretta e quotidiana, possono spiegare l’incanto di una realtà per noi perduta, in cui non vorremmo ritornare, e che non saremmo forse neppure in grado di affrontare. Ma se siamo sinceri dobbiamo riconoscere che la poesia di Vermiglio ci sussurra che troppo abbiamo cancellato del passato e che molto sicuramente è da ritrovare.

Questo film ha un valore universale e riguarda perciò tutti noi, perché a volte una storia di anni lontani ci spalanca inaspettati orizzonti di verità più che una vicenda ambientata nel presente.

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