A soli due anni di distanza da Parasite, il film sudcoreano di Bong che vinse quattro premi Oscar, tra cui quello per miglior film dell’anno, un’opera giapponese potrebbe ripetere l’exploit: si tratta di Drive My Car, film di Ryūsuke Hamaguchi che dopo aver fatto innamorare Cannes – vincendo il premio per la miglior sceneggiatura – e vinto il Golden Globe come miglior film internazionale, punta ai premi dell’Academy con quattro candidature (miglior film, film internazionale, regia e sceneggiatura).
Al centro di Drive My Car, tratto da un racconto di Haruki Murakami (nella raccolta Uomini senza donne) c’è il teatro: i protagonisti sono un regista teatrale che dopo l’improvvisa morte della moglie fatica a rimettersi in sesto, tentando di farlo attraverso un adattamento dello Zio Vanja di Cechov, e un’autista che lo aiuta a spostarsi e di cui ha bisogno per la sua vista compromessa.
Metafora evidente, forse anche un po’ facile nel copione scritto dal regista con Takamasa Oe: dove non arrivano gli occhi (il cinema), giungono le parole (la letteratura, il teatro). Il regista però non la fa così semplice, perché anche le parole sono immagini: lo è il teatro perché si compone di una scena e di idee che la rendono visiva, ma soprattutto lo è il teatro di Yusuke, il protagonista, perché sceglie attori di diverse nazionalità e li lascia liberi di parlare nella loro lingua, mostrando al pubblico le didascalie con le traduzioni, anche quando servono a rendere il linguaggio dei segni di un’attrice sordomuta.
L’oralità, che nel precedente Il gioco del destino e della fantasia era un modo per sfidare le logiche emotive, qui diventa parte di un panorama molto complesso, di una tradizione artistica e culturale che cambia forma di continuo sotto gli occhi e le orecchie dello spettatore, che ha bisogno della sua partecipazione attiva, dell’ascolto, della voglia di penetrare i personaggi e il senso di un film che oscilla coerentemente tra due estremi, tra silenzio e testo: Drive My Car è un film tutto composto di non detti o meglio di non capiti (il linguaggio non verbale, a cui nessuno dà ascolto, ma che come immagine rivela più di quanto non riusciamo ad ammettere), di segreti custoditi negli sguardi, di parole che latitano nei momenti più importanti (la laconica autista) e al tempo stesso di vocaboli che sembrano esondare quando non serve, costringendo personaggi e spettatore a leggervi attraverso, a scavare nella loro sovrabbondanza.
Mentre racconta la quieta grandezza del teatro e la grande quietudine della vita, soprattutto nel magnifico finale col monologo nella lingua dei segni (con la parola e l’immagine che si concretizzano come una coreografia), Hamaguchi lavora sulla durata (179 minuti), sulla macro-sequenza, sulla possibilità di approfondire ogni attimo o elemento della scena, tanto nella scrittura – il prologo già densissimo dura 40 minuti dopo i quali compaiono i titoli di testa – quanto nella regia, dando sempre più aria alle parole, agli atti, agli eventi e ai sentimenti fino a farne un ingrandimento microscopico che possa rivelare la vita nascosta della parola, la forma sentimentale del verbo.
Non sappiamo, e non crediamo, che Hamaguchi possa ripetere quella sorpresa dell’estremo oriente di un paio di anni fa, ma siamo pronti a scommettere che dopo aver incantato critici e cinefili festivalieri negli ultimi, i suoi film possano arrivare anche a un pubblico più ampio: serve una buona dose di curiosità e predisposizione, visto che il regista fa un cinema meno immediato e accattivante di quello di Bong, ma l’investitura dell’Academy potrebbe essere il viatico giusto.
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