Lo storico trionfo di Parasite ha sicuramente aperto una breccia (e una fetta di mercato) per i film sudcoreani all’interno dell’industria statunitense. A ben guardare, però, Minari, il film di Lee Isaac Chung candidato a 6 Oscar, non è proprio un film sudcoreano: il regista è nato a Denver e a produrre il film è la Plan B di Brad Pitt. Di asiatico ci sono solo le origini, quindi, e un’apparenza estetica.
Il film segue le vicende di una famiglia sudcoreana immigrata negli Stati Uniti negli anni ’80, che dalla California si sposta nell’Arkansas dove il padre (Steven Yeun, candidato) segue il suo desiderio di diventare agricoltore. La scelta scombina la serenità familiare, specie dei coniugi, che diventa ancora più fragile con l’arrivo della nonna (Yoon Yeo-jeong, candidata) dalla Corea.
Partendo dai suoi ricordi, Chung (candidato come regista e sceneggiatore) scrive un dramma familiare dal passo calmo, dallo sguardo infantile (il filtro del racconto è quello del piccolo David, interpretato da Alan Kim), che cerca di seguire la scia dei maestri orientali del cinema di famiglia come Ozu o Kore’eda, ma che di quei registi sembra la versione contraffatta o edulcorata.
È piuttosto interessante il contesto culturale di Minari (nelle sale dal 26 aprile, compatibilmente con la loro riapertura), ovvero il racconto di come il sogno americano dell’uomo che viene dal nulla e si fa da solo, coltivando o costruendo, colonizzando territori inesplorati, sia diventato un sogno globale e che poi, come reazione alla Reaganomics, sia tornato negli Usa custodito dagli immigrati, replicando un ciclo storico che rimanda alla fine del secolo prima, quando i cinesi sognavano di integrarsi partendo dalle ferrovie.
Di questo discorso a Chung interessa solo il lato affettivo e sentimentale, con le radici che diventano simbolo dell’intero film, in senso metaforico (le origini coreane che la nonne vorrebbe che i nipoti almeno un po’ conservassero) e in senso simbolico, quelle che ossessionano il padre in cerca di acqua con cui farle crescere e quelle della nonna, che semina il minari – il cui nome italiano è crescione coreano o prezzemolo giapponese – sulla riva di un torrente, sfruttando il fatto che quel seme germogli ovunque.
Peccato, però, che Chung i sentimenti e gli affetti non li sappia realmente raccontare e mettere in scena, perché non sa costruire l’andamento emotivo del film, sembra giustapporre i pezzi e le scene ma non riesce a dargli un’unità, segue il bimbo in modo comodo e un po’ ruffiano, ma non ne fa un vero e proprio punta di vista sulla storia, sfrutta tutti i prevedibili elementi drammaturgici, come la malattia della nonna o quella di David, in modo strumentale. Minari può piacere e intenerire se non si conosce il cinema proveniente da Cina, Giappone, Corea o tutta l’area dell’Estremo Oriente, e in questo potrebbe fornire uno spunto per scoprirne il valore (per esempio, sulla piattaforma Fareast), altrimenti sembra la versione da discount di quei film, di quei registi, di quel modo di raccontare i cambiamenti socio-culturali, di giocare con le tradizioni e metterle in crisi dentro un rapporto familiare.
Una versione leziosa, riempita di zucchero artificiale, in cui lo sforzo di risultare personale sembra celare lo spaesamento di chi si sta perdendo dentro i suoi ricordi.
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