È un film che pare vittima di un paradosso temporale Una famiglia vincente – King Richard, che cerca di conciliare lo spirito del tempo con una concezione estetica e “politica” vecchia di almeno 30 anni e che trova come unico modo per unire le due cose la prova del divo che ingoia e occulta tutto il resto, tanto che il protagonista Will Smith ha già racimolato candidature ovunque, vinto il Golden Globe e ipotecato l’Oscar, più altre cinque candidature tra cui miglior film.

Diretto da Reinaldo Marcus Green e scritto da Zach Baylin, il film racconta la vera storia di Richard Williams, più noto per essere il padre delle sorelle Williams – Venus e Serena – due tra le più grandi campionesse della storia del tennis, capace di pianificare la vita e il percorso sportivo delle figlie fin da prima del loro concepimento con una dedizione prossima al fanatismo che però ha dato i suoi frutti vincenti.

King Richard è una biografia in bilico sull’agiografia (tra i produttori ci sono ovviamente le due sorelle tenniste) che riesce in modo sfacciato a far convivere un impianto ideologico di una Hollywood superata con le ritrovate istanze inclusive, il tutto amalgamato dalla capacità manipolatoria – o propagandistica, secondo i critici più feroci – del racconto statunitense. Per cui, il progetto diventa un pallino di Will Smith, che lo produce e lo usa come veicolo per riprendersi da un periodo brutto della sua vita, cercando quasi una sovrapposizione con Williams, tramutando un personaggio discutibilissimo in un eroe popolare.

Il vero Williams è l’incarnazione di molte dottrine a stelle e strisce, sociali e familiari, economiche e sportive, votate all’iper-performatività, al raggiungimento degli obiettivi, alla costruzione di percorsi anche psicologici in cui l’individuo come persona è subordinato alla risorsa, al suo valore economico o morale, non a quello psicologico: in questo monumento all’abnegazione di un padre, ossessivo ma “con amore”, sorretto dalle 78 pagine del suo piano come un profeta è sorretto dalla Bibbia, le figlie spariscono, resta ingombrante solo la figura dell’uomo (e del divo), come fosse l’unico tessitore del talento delle “sue” donne, come se il loro successo fosse più importante del sentirsi dare ragione, cosa che fanno tutti di continuo, persino le didascalie a fine film.

Sta qui l’inganno che il film fa allo spettatore, fargli credere alla storia ispirazionale, alla lotta contro i pregiudizi di uno degli sport più bianchi che esistano, all’emancipazione eroica senza mai sollevare un dubbio, dimenticandosi le ombre e le contraddizioni e mostrando in modo superficiale le due vere eroine di quell’emancipazione. A dire il vero qualcuno ci prova a mettere in dubbio il personaggio principale, ma la sceneggiatura gli fornisce sempre le parole giuste, condite dalla giusta retorica filmica, per fare bella figura e non discutere mai l’assunto del film.

Sarebbe quasi un’encomiabile operazione di lavaggio a uso e consumo dello spettatore, se non fosse che prima del finale, Green sembra dimenticarsi che il cinema è anche narrazione e immagini, lascia che la macchina da presa segua Smith fare facce contrite e determinate per due ore sperando che il pubblico resti in poltrona per poi servirgli, in modo furbissimo, un finale che punta sull’emozione, sui valori e finalmente sulla loro costruzione filmica. Così facendo, però, lascia la sensazione che il gioco sia ancora più sporco.

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