A volte, noi critici abbiamo l’impressione che un pretesto narrativo nasconda il cuore di un film, che il meccanismo che fa procedere il racconto possa frenare la profondità emotiva. The Father, debutto al cinema del drammaturgo Florian Zeller candidato a 6 Oscar (tra cui miglior film), dimostra che è invece possibile il contrario.
Il film racconta di un uomo, il padre del titolo (Anthony Hopkins, nominato), la cui realtà comincia a sgretolarsi sotto i suoi occhi, fatica a riconoscere la figlia (Olivia Colman, nominata), si confonde tra passato e presente, non ricorda chi lo assiste e dove vive. Il film percorre la storia di questo declino psico-fisico dal suo punto di vista, come un film del mistero in cui la realtà cambia di continuo e il protagonista, assieme allo spettatore, perde il filo della logica ed è chiamato a ritrovarlo.
Assieme a Christopher Hampton (uno che l’Oscar l’ha vinto per la sceneggiatura di Le relazioni pericolose), Zeller adatta la sua pièce – e guadagna la nomination – quasi come fosse un thriller hitchcockiano, in cui, come recita il sottotitolo italiano, Niente è come sembra (il film sarà distribuito forse a fine estate), costruendo una realtà continuamente in divenire, incomprensibile se non nel finale, quando, come in un thriller, tutti i pezzi vanno dolorosamente al loro posto.
È questo il meccanismo narrativo che all’apparenza rende The Father un gioco con lo spettatore, ma scena dopo scena si svela come il modo migliore per mostrare e far sentire allo spettatore il dramma della demenza senile (che era già stato racconta da Philippe LeGuay in Florida a partire dalla stessa pièce ma con toni e modi molto diversi), è il meccanismo stesso a far vivere al pubblico in prima persona lo spaesamento di una memoria distrutta, di uno spazio-tempo vacillante, in cui i ricordi non danno conforto ma sono “colpi di scena” che mettono a disagio.
Come il Charlie Kaufman di Sto pensando di finirla qui, Zeller ambienta tutto il dramma dentro la mente del suo protagonista (un’interpretazione incredibile per sfumature e sensibilità umana, in cui anche gli attimi di gigioneria hanno un senso più sottile e umano), fa delle case che abita e che non sono mai uguali a loro stesse, mescolandosi di continuo (scenografie di Peter Francis e Cathy Featherstone, nominati), la metafora di un uomo perso dentro il suo cervello, che cerca di aggrapparsi a ciò che vede, provando a dargli un senso. In questo modo, mentre lo spettatore non può perdersi una frase o un momento perché potrebbero risultare decisivi, è costretto a capire cosa prova il personaggio, a percepire tutte le dolorose sfumature della vecchiaia, sempre più penose, sempre più lugubri.
Un esempio magistrale di tensione drammaturgica, che la regia di Zeller, precisa come un teorema, puntuale come un metronomo, sa sfumare verso un percorso visionario che fa male, che commuove, che porta a un livello di comprensione dei meccanismi della senilità più alto dal semplice sguardo esterno. Un film in cui, come nel miglior teatro e nel miglior cinema, la forma e la sostanza sono una cosa sola.
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