Questa volta va bene con la Francia e non con la Germania, ma non c’è da farsi illusioni su possibili giri di valzer, anche quando Berlino non si muove all’unisono, certo non marcia su Parigi. Non più, questa è storia dei due secoli scorsi. Il tour de force di Giorgia Meloni in vista del Consiglio europeo straordinario di giovedì e venerdì prossimi non ha prodotto granché se non una sintonia sugli aiuti all’Ucraina e sulla difesa europea. Due questioni chiave sia chiaro, l’una immediata l’altra più in là nel tempo, e non vanno sottovalutate, al contrario. Entrambe, però, richiedono spese consistenti, l’Italia è in grado di metterle in campo?
Questa volta va bene con la Francia e non con la Germania, ma non c’è da farsi illusioni su possibili giri di valzer, anche quando Berlino non si muove all’unisono, certo non marcia su Parigi. Non più, questa è storia dei due secoli scorsi. Il tour de force di Giorgia Meloni in vista del Consiglio europeo straordinario di giovedì e venerdì prossimi non ha prodotto granché se non una sintonia sugli aiuti all’Ucraina e sulla difesa europea. Due questioni chiave sia chiaro, l’una immediata l’altra più in là nel tempo, e non vanno sottovalutate, al contrario. Entrambe, però, richiedono spese consistenti, l’Italia è in grado di metterle in campo?
Non si tratta di fare come la Polonia, Paese ben più povero, che ha intenzione di spendere fino al 4% del prodotto lordo, ma almeno di stare al passo con la Germania che ha deciso di impegnare quel due per cento che rappresenta la quota richiesta dalla Nato. Per condurre una politica estera attiva ci vogliono i mezzi finanziari, ancor più se si vuole, come dice Giorgia Meloni, una “grande nazione” all’altezza delle sue ambizioni. L’elevato debito pubblico e una politica di bilancio che, al di là della giusta prudenza, non fa intravedere grandi prospettive, rappresentano due ostacoli concreti.
L’Italia resta sola, come ha titolato ieri la Repubblica? Dipende da che cosa vuole il Governo Meloni e che cosa si aspetta dal Consiglio europeo. È chiaro che Olaf Scholz ha messo sulla scacchiera le sue pedine, è quel che fanno tutti, Italia compresa, all’inizio di una trattativa che sarà molto complicata. Nessuno immagina che venerdì i nodi verranno sciolti, ma si potrà evitare il fallimento se almeno saranno decise le prime mosse.
Sugli aiuti di Stato l’Italia non è isolata, molti Paesi, almeno una dozzina, temono che un allentamento generalizzato come chiede Berlino favorisca chi può spendere, aumentando così il divario interno. Roma propone un fondo comune, alimentato da bond garantiti dall’Ue, un modello Next Generation Eu, per far fronte ai massicci incentivi americani alla transizione economica. Rispondere in ordine sparso è illusorio, per quanta “potenza industriale” possa mettere in campo la Germania, da sola non ce la fa. Ciò vale per la Francia e qualsiasi altro membro dell’Ue. Per uscire dall’impasse Bruxelles propone “la piena flessibilità” nell’uso di risorse già esistenti (Pnrr, RePower Eu, fondi di coesione), ma è chiaro che non sono sufficienti. Gli Usa hanno stanziato 370 miliardi di dollari. Siamo solo all’inizio, anche per la pandemia c’è voluto tempo prima di decidere strumenti e risorse comuni.
Occorre prima risolvere alcuni problemini non da poco. Il più importante riguarda come garantire l’eventuale emissione di debito. La via maestra è aumentare il bilancio europeo, ma di questo si parlerà solo il prossimo anno. Inoltre, non è chiaro che tipo di sostegni vogliono sia l’Ue, sia i singoli Paesi. Creare aziende pubbliche in comune, tipo Airbus? O varare sgravi fiscali come gli Stati Uniti? La prima soluzione è irrealistica per il momento. Certo, stanno nascendo dieci Giga factory in Europa e si stanno scovando importanti giacimenti di “terre rare” (anche in Italia), ma sono progetti a medio termine. Se gli incentivi fiscali sono gli strumenti più praticabili nell’immediato, è chiaro che verranno stanziati su base nazionale.
Il Governo italiano intende rispondere con una tattica ostruzionistica, puntando a limitare i settori nei quali saranno consentiti gli aiuti. Ma c’è il rischio che Berlino si sottragga per difendere le proprie prerogative (la politica fiscale in base ai trattati resta nazionale), in ogni caso nessuno può lanciarsi in una battaglia per bloccare la Volkswagen, tanto per fare un esempio, sull’auto elettrica, nemmeno la Francia che sostiene Stellantis o l’Italia che nazionalizza l’Ilva. Insomma, si entra in un ginepraio foriero di conflittualità permanente.
Per non essere tagliata fuori, Roma gioca sul Patto di stabilità. Si sta discutendo come riformarlo e torna d’attualità la proposta di escludere dal calcolo del disavanzo gli investimenti, almeno quelli strategici per la sicurezza e la competitività europea. Se ne parla da un ventennio, fin da quando Romano Prodi era presidente della Commissione, ed è stata riproposta più volte da Mario Monti. È l’idea di rendere “meno stupido” il Patto e di usarlo in funzione anti-ciclica (gli investimenti compensano il calo dei consumi e impediscono che la stretta monetaria contro l’inflazione provochi una recessione). La Germania non è d’accordo, la Francia invece è più aperta, finora circolano solo ipotesi, la trattativa deve cominciare.
All’ordine del giorno giovedì e venerdì c’è la questione migranti. Anche qui Giorgia Meloni ha raccolto finora, sia a Berlino, sia a Stoccolma, solo petizioni di principio. Ma la presidente del Consiglio è convinta che alla fine esca qualcosa più che una promessa, ad esempio un premio per i Paesi che fanno di più, sia per gli investimenti sia per i visti. Siamo comunque lontani da una politica in grado di affrontare una grande questione che riguarda tutti, uno di quei problemi comuni per i quali è nata, in fondo, l’Unione europea.
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