Caro direttore,
la condizione di emergenza epocale, straordinaria, planetaria, sanitaria ed economica, ha scatenato polemiche, spesso acredine, sentimenti di delusione, rassegnazione e ultimatum verso l’Europa. Ci sono caduti tutti, persino eccelsi giornalisti. Difficile trovare eccezioni. Quasi tutti però si scordano un dettaglio banale, che è ancor oggi spiegato nelle premesse dei migliori manuali di diritto comunitario. Che quell’Europa contro cui ce la prendiamo, non è ancora mai nata. Giuseppe Federico Mancini, politico e giurista, membro per molti anni della Corte di Giustizia europea, lo spiegava molto bene (come tanti altri).
La struttura giuridica e istituzionale europea si fonda su impianto, su fondamenta, su direttrici che hanno nel buon funzionamento del mercato unico il loro scopo e la loro genesi. Se poi questo determina conseguenze e risultati socialmente apprezzabili, benefici sociali, “tanto meglio, ma nient’altro che tanto meglio”, spiegava Mancini. È vero che sono passati vent’anni da queste osservazioni, e ci sono stati nuovi trattati e tanti proclami, scritti e orali. Ma la situazione è ancora quella. Così si spiegano il ruolo “fiacco” del Parlamento europeo, lo “strapotere” (secondo alcuni) degli organi che controllano gli interventi e gli aiuti pubblici, le norme isteriche sulla grandezza delle vongole e tanto altro.
Il giorno dopo il referendum inglese sulla Brexit è stata la prova del nove. La cosiddetta Europa e la gran parte dei suoi rappresentanti non hanno reagito col rammarico per una cosa impossibile, cioè immaginare la comunità degli europei senza gli inglesi. Ma con la minaccia di fare i conti. In un mercato si fanno i conti. È in una famiglia che si ripensano i rapporti quando arriva un grido di disagio (quel referendum, giuridicamente parlando, non valeva nulla. Era solo un grido di disagio). Se ve ne andate ci dovete un sacco di soldi e non crediate che se ci mettiamo a respingere reciprocamente gli espatriati ci guadagnate voi, disse quell’Europa da quel giorno a tutta la durata delle trattative. Oggi, a parte la clamorosa e ormai non più perdonabile ignoranza politica e giuridica di molti massimi esponenti della classe dirigente che per esempio se la prendono ancora con la Bce, senza la quale saremmo già in pieno fallimento, non ha senso urlare contro qualcuno che non è mai nato. Specie da parte di chi ha avuto, in qualche modo, per molti anni le redini politiche e culturali di quell’ideale rimasto incompiuto e poi usato a scopo di fantasma, di nemico immaginario, di spauracchio.
E sulla Bce invece, ridiciamolo per la millesima volta. La polemica contro la Bce sottende quella contro l’euro e contro tutta questa baracca, per chi la considera così. Solo che dall’inizio dell’euro alla prima seria crisi del 2009 la moneta unica ci ha concesso di vedere gli interessi sul debito pubblico scendere da circa il 13% a circa il 5%. In 10 anni si sono risparmiati 700 miliardi. L’equivalente di oltre 22 maxi-manovre finanziarie. Dove sono quei soldi? Ci abbiamo forse risanato i ponti? Abbiamo forse dato vita a quell’urgentissimo piano nazionale di protezione idrogeologica e prevenzione dai terremoti? Abbiamo ammodernato le infrastrutture fisiche, creato quelle tecnologiche a diffusione capillare, digitalizzato la Pa?
Perciò il grande sdegno, adesso, contro l’idea delle “condizioni” che altri, lontani, malvagi, vorrebbero porre va ribaltato. Le condizioni dovrebbero essere poste da chi chiede soldi, dal popolo e dalla nazione che delega il Governo a fare questo nuovo debito. Qualcuno può immaginare che, sia pure in una condizione di grave emergenza, uno vada, non ha importanza se dal proprio padre o dal direttore di banca e dica: “Sono in serissima emergenza, voglio 10 milioni. Ma sia chiaro, nessuno si permetta di chiedermi nemmeno le notizie sul mio debito pregresso, sul mio patrimonio, sul mio stato di salute, sui miei flussi di cassa, sui miei usi e costumi, sulle mie scelte di spesa. Me li dovete dare e basta. Senza fare una domanda”. Le “condizioni” le dovrebbe porre la nazione stessa che domanda e il cui destino è compromesso. Ora è proprio (quasi) irrilevante se il portavoce sia Conte o Colao o Draghi o Maria De Filippi. È il Paese a brandelli che dovrebbe dire: “Appena rimetto il becco fuori casa vi prometto, dopo aver fatto finta di farlo per 30 anni, che risolvo il problema della giustizia, quello dei 10mila centri di spesa pubblica, prometto di eliminare lo statuto speciale ormai ridicolo e costosissimo concesso a 5 Regioni, prometto di eliminare lo statuto del pubblico impiego anti-storico e foriero di parte della paralisi produttiva del Paese”. E altro. Poi per l’urgenza, per l’immediato, la soluzione si trova.
L’idea di Carlo Messina e di Intesa Sanpaolo per esempio, quella di collegare il prestito del Mes alla Bei (Banca europea per gli investimenti) risolve e compone il piano tecnico, la rapidità ed efficienza dell’intervento, le percentuali di perequazione fra Paesi con quello del nodo politico. Ma bisogna che siano poste le condizioni. Severe, rigorose, vere. Ne va del destino dei prossimi vent’anni. Vanno poste da noi, non imposte dagli altri. O pensiamo che possano bastare i tricolori sparati sui palazzi, gli inni cantati sui balconi o il legalismo materno di Barbara D’Urso? Se nemmeno la fila, la lunga fila dei carri dell’Esercito, con il suo contenuto di silenzio eterno condotto nel silenzio della città, se nemmeno questo apre gli occhi e il cuore alla gente di questo Paese, la situazione è disperata.