È sempre antipatico avere il ruolo di colui che porta via gli alcolici quando l’atmosfera della festa comincia a essere gioiosa e gli invitati si divertono.
L’atmosfera dell’Italia non è proprio gioiosa, ma leggermente allegra e piena di speranza dopo l’annuncio della Banca d’Italia che, grazie al rimbalzo dell’economia nel 2021 dopo la dura recessione del 2020, c’è stata una leggera diminuzione, alla fine dell’anno scorso, del peso del debito della debito della Pubblica amministrazione sul Pil (che ha toccato il 150%) e soprattutto dopo la conferenza stampa che ha fatto seguito, la sera del 18 febbraio, ai provvedimenti varati dal Consiglio dei ministri la settimana scorsa, provvedimenti analizzati su questa testata. Soprattutto, l’annuncio che il Governo sarà presto in grado di presentare una road map per la fine delle restrizioni anti-Covid ha suscitato molte speranze e aspettative in tutti gli italiani.
Era, senza dubbio, necessario infondere fiducia dopo un periodo all’insegna della grande confusione e in cui il Governo pareva di essere sul punto di spappolarsi dato che i gruppi parlamentari davano l’impressione di seguire strade differenti, su molti temi, da quelle concordate in Consiglio dei ministri.
Le difficoltà, però, cominciano adesso. Con la preparazione del Documento di economia e finanza che deve essere presentato entro la fine di aprile e fissare la linee della politica di bilancio per i prossimi tre anni. Ovviamente, come sempre, quelle per l’anno prossimo (il 2023) devono essere ben specificate, mentre quelle per il 2024 e per il 2025 saranno inevitabilmente meno dettagliate, soprattutto a ragione dell’incertezza del quadro interno e, soprattutto, di quello internazionale.
Le linee generali, per i prossimi anni, sono comunque fissate nei nostri impegni con l’Unione europea: riduzione o almeno contenimento delle spese di parte corrente e aumento di quelle in conto capitale per investimenti valutati attentamente e che abbiano un elevato rendimento economico e sociale. Nonché, naturalmente, una sensibile riduzione del peso del debito pubblico sul Pil.
È tutt’altro che semplice predisporre un Def di fine legislatura mentre le forze politiche sbandierano i loro vessilli identitari (che spesso vogliono dire aumenti di spesa pubblica di parte corrente finanziati pure in deficit).
A Berlino ora c’è un nuovo “uomo forte”, il Prof. Lars Feld capo economista del ministero delle Finanze della Repubblica Federale Tedesca. Ebbi la ventura di conoscerlo anni fa quando frequentavo il Festival di Arte Lirica di Aix-en-Provence e la locale università (uno dei bastioni liberisti nella dirigista Francia): organizzava un convegno di studi economici a latere della manifestazione musicale. Il cinquantacinquenne prof. Feld è ordinario all’Università di Friburgo e uno dei più noti esponenti della Mont Pélerin Society, associazione di intellettuali (non solo economisti) nata su iniziativa anche di Milton Friedman e di Friedrich August von Hayek per diffondere il pensiero liberale. Feld è il braccio destro di Lindner ed avrà voce non secondaria nell’erogazione degli aiuti europei della Recovery and Resilience Facility del Next Generation Eu. Come molti tedeschi viene spesso in vacanza in Italia.
A chi avesse dubbi sulla sua impostazione (peraltro non solo del Partito Liberale il cui leader è ministro delle Finanze della Germania, ma anche della leadership del Partito Social-democratico, il Cancelliere Olaf Scholz che – si ricorderà – era considerato in Italia come “il duro” dell’ultimo Governo guidato da Angela Merkel) basta leggere la sua prima intervista concessa il 18 febbraio a un quotidiano italiano.
Rivedere il Patto stabilità e crescita e gli accordi intergovernativi a esso annessi e connessi? Un secco “no” non solo per la difficoltà oggettiva di giungere adun accordo tra i 19 Stati e di farlo ratificare dai 19 Parlamenti, ma in quanto dei 19 Stati dell’Ue, sette già l’anno scorso avevano un rapporto debito della Pubblica amministrazione su Pil inferiore al 60%, sei (tra cui la Germania) vi erano molto vicini, e altri sei lo sarebbero se facessero le appropriate riforme. Se del caso c’è il Meccanismo europeo di stabilità per aiutarli, anche chiamando la trojka per commissariare di fatto la politica economica per qualche anno. In merito alle proposte di “parcheggiare” parte del debito (ad esempio, quello causato dal Covid), le ritiene spazzatura. Tredici dei diciannove dell’unione monetaria, la pensano sostanzialmente come il Prof. Feld.
Se ne sta tenendo conto nell’approntamento del Def? Il 60% della spesa pubblica di parte corrente può essere classificata come “spesa sociale”, e la metà del totale è considerata “spesa previdenziale”. La pandemia ha dimostrato che occorre salvaguardare, e anzi potenziare, la spesa sanitaria. Il contenimento deve riguardare quella che viene chiamata “spesa sociale” come il cosiddetto Reddito di cittadinanza (oggetto quasi ogni settimana di scandali) o il supporto al mezzo milione di italiani che, andati in pensione giovanissimi in base a norme mal concepite, godono da oltre quarant’ anni di un assegno “previdenziale” ogni mese.
In questi giorni, è uscito il rapporto annuale del Centro Studi Itinerari Previdenziali, un documento analitico di oltre 200 pagine. Questa testata ne ha già pubblicato un sunto. Il documento indica con grande chiarezza come separare assistenza da previdenza nei bilanci Inps e quali sono le maggiori sacche di inefficienza. La commissione presso il ministero del Lavoro che sta approntando una riforma che dovrebbe essere presentata questa settimana ne tiene conto? Non lo ha neanche guardato e sta smontando le riforma del 1995 con una varietà di porte d’uscita, finestre e bonus allo scopo di abbassare sostanzialmente l’età effettiva di pensionamento.
Queste idee finiranno nel Def? Cosa penserà il resto dell’unione monetaria che ci ha sorretto in questi anni difficili e a cui dovremo probabilmente continuare a ricorrere?
Non è ancora il momento di pensare allo champagne.
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