“Così il forte aumento di prezzo di tutte le materie prime, non solo energetiche, è destinato a perdurare con evidenti effetti sull’inflazione. Significativo a questo proposito il silenzio dei Paesi arabi cosiddetti amici, che finora non si sono dichiarati disponibili ad aumentare la loro produzione di petrolio e gas. Preoccupante è anche il problema degli approvvigionamenti di cereali, dove gli agricoltori ucraini potrebbero nei prossimi mesi non essere in grado di seminare i loro immensi campi di grano. L’Ucraina è il terzo produttore al mondo di frumento e, assieme alla Russia, arriva a un quarto della produzione mondiale.
La crescita economica mondiale è allora destinata a rallentare sia a causa delle sanzioni, per le pesanti ripercussioni sul commercio internazionale, sia a causa della perdurante inflazione che erode il potere d’acquisto delle famiglie. Anche l’incertezza è destinata a rallentare gli investimenti e quindi il Pil. L’Europa, poi, probabilmente pagherà il prezzo più alto anche perché gli Stati Uniti sono oramai autosufficienti sia in termini energetici che cerealicoli.
In uno scenario di stagflazione, la politica monetaria si trova nella complicata situazione di dover contrastare un’inflazione che dipende da fattori di offerta sui quali ha scarsa influenza, cercando di non appesantire un ciclo economico già in progressivo rallentamento. Anche la politica fiscale è nella difficile congiuntura di ereditare dal passato un enorme debito pubblico dovuto alla lotta alla pandemia e di dover affrontare importanti e inaspettate spese nel campo militare e della difesa. Tutto ciò riduce gli spazi di manovra per sostenere i bisogni più elementari (pane e benzina) delle classi più deboli e quindi sostenerne i consumi”.
Queste le conclusioni di un breve saggio pubblicato il 4 marzo su lavoce.info da Roni Hamaui, professore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente di Intesa Sanpaolo ForValue.
Ancora più preoccupanti le conclusioni di un briefing (analisi approfondita) pubblicato sul fascicolo di The Economist del 5-11 marzo: stiamo andando, in estrema sintesi, verso una “nuova età” di conflitti economici in cui le sanzioni economiche comportano l’impoverimento di Paesi già a basso reddito, ma non riescono a incidere sui cambiamenti al vertice delle autocrazie, come dimostrano gli embarghi commerciali in atto da anni nei confronti dell’Iran e del Venezuela. Anzi, come negli anni Trenta del secolo scorso, comportano autarchia e frammentazione dell’economia internazionale con conseguenze dannose per tutti.
È in questo contesto, molto differente di quello di pochissime settimane fa, che si svolgono, sul piano interno, la preparazione del Documento di economia e finanza, e su quello europeo i prolegomeni della trattativa su quando e come rimettere in vigore le regole di vigilanza sulle politiche di bilancio degli Stati che fanno parte dell’unione monetaria europea. Sono due aspetti di politica economica strettamente interrelati in quanto il Def deve tratteggiare la politica di finanza pubblica per il prossimo esercizio di bilancio in dettaglio e per i due successivi più a grandi linee tenendo conto di quelle che saranno nel 2023 le regole europee (ora sospese), ma che dal gennaio dell’anno prossimo dovranno essere di nuovo in vigore.
Si sono levate non poche voci a favore di un’ulteriore sospensione, sino al 2024 e se possibile ancora di più. Non credo che riceveranno molto ascolto. Quindici dei diciannove Stati dell’unione monetaria hanno, come noi, la difficoltà di re-impostare la politica di bilancio per dare più spazio alla difesa, ma non hanno il nodo di un debito della Pubblica amministrazione il costo del cui servizio è destinato ad aumentare e la cui sostenibilità diventa più fragile a ragione dell’andamento dei mercati finanziari. Ricordiamo che nelle ultime settimane il Fondo monetario internazionale ha lanciato più di un allarme a proposito dell’aggravarsi del debito mondiale, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, ma anche di alcuni Paesi europei (dove l’Italia è al secondo posto dopo la Grecia). A ragione della guerra, tali allarmi non hanno avuto adeguato spazio sulla stampa italiana.
Mario Draghi e Daniele Franco sono molto rispettati sia nelle sedi europee, sia presso il Fmi. Ma tanto a Bruxelles quando a Washington ci si ricorda che nel 2014 l’Italia chiese una deroga alla regola sull’indebitamento della Pubblica amministrazione per finanziare un programma speciale di investimenti, la ottenne, gli investimenti vennero accantonati (mancavano i progetti esecutivi) e la deroga venne impiegata per finanziaria il bonus di 80 euro di renziana memoria. Altro ricordo: l’attuale ministro degli Affari esteri e dalla Cooperazione internazionale che dal balcone di palazzo Chigi esultava, ai tempi del primo Governo Conte, per lo sforamento dell’indebitamento della Pubblica amministrazione al fine di finanziare il discusso (e secondo numerosi esperti “criminogeno” in quanto induce all’illegalità) Reddito di cittadinanza. Di fronte a fatti come questi, la reputazione di Draghi e di Franco possono fare ben poco. Anche perché tutti sanno che la gestione del bilancio 2023 sarà responsabilità del Governo che sarà in carica dopo le elezioni della prossima primavera.
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