I prezzi al consumo si stanno ridimensionando, ma restano ancora troppo in alto: a marzo l’indice Istat è calato soltanto da +9,1% a +7,7% su base annua. C’è uno zoccolo duro difficile da intaccare; non più l’energia o le materie prime, ma il paniere della spesa che ha fatto registrare un +12,7%. L’Istat calcola anche quella che viene chiamata inflazione core, al netto dell’energia e dei beni alimentari freschi: ebbene qui siamo a +6,5%, addirittura in leggero aumento rispetto a febbraio quando era stato registrato un +6,4%. Stiamo importando meno inflazione dall’estero, ma ne stiamo generando di più dall’interno e questo rende davvero molto complicato difendere il potere d’acquisto delle famiglie.
Christine Lagarde non ha dubbi: avanti con la stretta, i tassi di interesse dovranno salire ancora, l’amara medicina comincia a funzionare, tuttavia non è sufficiente, bisogna avvicinarsi in modo più rapido al 2%. Chi sperava in una pausa (come le banche centrali di Italia, Portogallo, Spagna, Grecia e Irlanda) resta deluso e la prossima riunione del consiglio della Bce segnerà un altro rialzo, c’è solo da vedere di quanto. Madame Lagarde tiene conto del quadro generale all’interno della zona euro: anche in Germania la discesa dell’inflazione è molto lenta (da +9,3 a +7,8%), la Francia in piena bufera non offre certo uno spettacolo di stabilità, la Spagna fa meglio degli altri (dal +6 al +3,1%) e ciò rafforza il fronte delle colombe che, in ogni caso, resta in minoranza.
L’Italia con il pesante fardello del debito pubblico sul prodotto lordo (147%, secondo solo alla Grecia) paga più degli altri per il rialzo dei tassi. È vero che il più forte aumento del debito pubblico è avvenuto in Francia (e Macron non vuol passare per quello che ha sfasciato i conti della République), ma il debito francese ha un rating elevato (doppia A), quello italiano è nel gradino più basso (tripla B), ciò vuol dire che viene considerato ad alto rischio. Le autorità monetarie assicurano che non c’è nessun rischio di insolvenza, però il costo del debito sale e assorbe risorse che potrebbero essere meglio impiegate altrove.
Il Governo è di fronte a un dilemma molto complicato. Da un lato continua a sostenere i redditi almeno delle fasce più povere con erogazioni monetarie, dall’altro deve ridurre gradualmente, ma nettamente, i sostegni varati prima contro gli effetti della pandemia e poi contro le conseguenze del caro bollette. Se stringe la cinghia favorisce il calo della domanda e apre la strada alla recessione, se non lo fa aumenta l’indebitamento.
Il ministero dell’Economia sta lavorando al Documento di economia e finanza (Def) che deve definire il quadro macroeconomico e con esso anche i parametri fondamentali del bilancio pubblico, vedremo dunque quali margini di manovra ci saranno. Ma non facciamo gli indovini se diciamo fin da adesso che saranno pochi. Stretta monetaria più stretta fiscale uguale calo della domanda e stop alla crescita. Con un’inflazione che è “la peggiore delle imposte”: lo sosteneva John Maynard Keynes, ma lo capiscono benissimo tutti quelli che vivono di stipendi e pensioni.
Come uscire dalla trappola? Venerdì Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia (fino a novembre), nel suo intervento alla conferenza Irariw (International Association for Research in Income and Wealth) organizzata dalla Banca d’Italia a Napoli, ha analizzato l’impatto della politica monetaria sulle diseguaglianze dei redditi in aumento con la rincorsa tra inflazione e tassi d’interesse. Bankitalia ha studiato l’impatto della pandemia e ha concluso che le diseguaglianze non sono aumentate in modo significativo perché la politica monetaria espansiva ha favorito gli interventi a difesa dei redditi. Combattere le diseguaglianze è compito dei Governi, non delle banche centrali, le quali tuttavia non possono ignorare l’impatto delle loro decisioni. Ciò conduce alla tesi che Visco ha più volte sottolineato: la lotta all’inflazione non si può fare solo con la politica monetaria, occorre coordinare l’intervento della banca centrale con le politiche di bilancio dei Governi e non basta nemmeno questo se non si raggiunge un accordo sulla dinamica dei salari e dei redditi. Insomma, potremmo chiamarlo un trittico: moneta, bilancio, patto sociale. Chissà che non lo rilanci anche il 31 maggio, nell’ultima delle sue Considerazioni finali?
Il Governo Meloni dovrebbe cogliere il momento, anche tenendo conto della sostanziale volontà di dialogo delle parti sociali (le agitazioni programmate dai sindacati non conducono a nessuno sciopero generale, nonostante la Cgil morda il freno), per impostare una politica economica meno rapsodica e più efficace anche sul piano politico.
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