Il nuovo Parlamento comincerà a operare giovedì prossimo con l’insediamento degli eletti e poi l’elezione dei Presidenti delle Camere. Sono le prime caselle che Giorgia Meloni dovrà riempire tenendo conto degli equilibri nella maggioranza che si è rivelata più turbolenta del previsto. Ma la casella chiave, quella davvero rovente, si trova a palazzo Sella dove ha sede il ministero dell’Economia. Non c’è dubbio che chi occuperà quel posto sarà di fatto, oggi come oggi, il numero due del Governo.



È vero che ci sono i ministri dell’Interno e degli Esteri, ma sia sulla politica della sicurezza, sia (anzi ancor più) sulla politica estera il presidente del Consiglio esercita un ruolo determinante. L’economia è diversa perché richiede conoscenze, esperienze, relazioni particolari sia nel mondo della finanza, sia nel più largo mondo, e non solo a Bruxelles. Nessuna di queste caratteristiche allo stato attuale viene riconosciuta a Giorgia Meloni che, salvo clamorose sorprese, riceverà entro fine mese l’incarico da parte del presidente della Repubblica. La vincitrice delle elezioni è la prima a saperlo e ha cominciato già prima del voto a guardarsi intorno, chiedere consigli (anche a Mario Draghi) e fare scouting. Da quel che si capisce si muove tenendo presenti quattro punti cardinali.



Primo, il nuovo ministro deve essere una personalità politica o quanto meno dotata di intelligenza politica e di uno stretto mandato fiduciario da parte del capo del Governo. In secondo luogo, deve essere preparato in economia, sia nella tecnica finanziaria perché sul mercato deve gestire circa 2.800 miliardi di euro in titoli pubblici, sia nella politica fiscale, sia in macroeconomia perché è accaduto spesso che siano state prese decisioni senza calcolare il loro impatto più generale, lo si è visto in Gran Bretagna con i clamorosi errori commessi dalla premier Liz Truss e dal cancelliere dello scacchiere Kwasi Kwarteng; potrebbe accadere in Italia con la flat tax applicata in modo altrettanto ideologico e affrettato.



Terzo, non può non sapere come funziona la macchina del Tesoro: naturalmente il compito principale spetta al direttore generale, ma, di nuovo, le scelte di fondo sono politiche, non tecniche. Sempre più importante diventa, inoltre, l’esperienza e la caratura internazionale, perché la politica economica è anche politica estera condotta con altri mezzi. Ciò significa che deve essere conosciuto, apprezzato, ascoltato dai suoi colleghi e rispettato dalla complessa eurocrazia che tende a procedere motu proprio.

Pochissimi all’infuori di Mario Draghi hanno queste quattro qualità. Nei nomi che sono circolati finora se ne trovano alcune, non tutte. Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli sono economisti di peso e dottrina, con una rete di conoscenze internazionali, oggi hanno posizioni di rilievo in grandi banche d’affari (Morgan Stanley e JP Morgan), sono stati direttori generali e ministri del Tesoro (il primo con Silvio Berlusconi, il secondo con Mario Monti). Dunque, posseggono tre delle quattro virtù necessarie. Non sono politici, non sono organici al centrodestra tanto meno a Fratelli d’Italia, non sappiamo quale rapporto potranno instaurare con il capo del Governo e quale delega riceveranno.

Un profilo molto simile è quello di Dario Scannapieco, oggi amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti, vicepresidente della Banca europea per gli investimenti, consulente di Draghi al Tesoro negli anni 90 poi dirigente della divisione finanza e privatizzazioni. C’è poi Fabio Panetta al quale Giorgia Meloni si è rivolta anzitempo per avere consigli, per farsi “briefare” si direbbe oggi. Dirigente della Banca d’Italia, membro del consiglio esecutivo della Bce, esperto di politica monetaria, non ha vissuto il Tesoro dall’interno ed è un tecnico anche se personalmente lo si descrive come vicino al centrodestra. Secondo le ultime indiscrezioni avrebbe gentilmente rifiutato la corte insistente di Fratelli d’Italia, aspettando che tra un anno si liberi il posto di governatore in via Nazionale. Quanto a Daniele Franco, anch’egli si sarebbe tirato fuori, anche perché i nuovi vincitori dopo un’intensa campagna contro il Governo Draghi non sono propensi a collocare un Draghi boy in quella posizione chiave.

Fin qui stiamo parlando di chi ha preso più punti nel totoministri. Ma quale sarà il mandato del prossimo ministro dell’Economia? Non c’è molto da inventare, l’emergenza detta le priorità. L’inflazione, frutto di un peggioramento delle ragioni di scambio, impone di ridurne l’impatto su famiglie e imprese. La stretta monetaria internazionale da un lato, l’elevato debito pubblico dall’altro, non lasciano all’Italia i margini della Germania, quindi si tratta di scegliere il sentiero strettissimo tra un recupero delle risorse interne attraverso un’accurata gestione del bilancio da un lato, e dall’altro un aumento dell’indebitamento compatibile con il quadro internazionale, contrattato con la Commissione europea, accettato dalla Bce.

Il secondo imperativo è portare avanti il Pnrr senza indugi, ritardi, cambiamenti sostanziali. È l’unico modo per fare investimenti visto che la spesa pubblica sarà assorbita pressoché completamente da aiuti, sostegni, incentivi. Il terzo compito sarà redistribuire il maggior costo dell’energia in modo equo tra famiglie, imprese, ceti sociali. E qui entriamo direttamente nel campo della politica. Se per i primi tre obiettivi un ministro “tecnico” è ottimo, decidere chi paga è da sempre il compito di chi esercita la sovranità.

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