Quella di ieri è stata una delle giornate più drammatiche per il governo Conte. Non solo per la quantità dei contagi o dei morti, per le rivolte popolari scatenatesi a Napoli e per il grido di dolore che si alza da un numero sempre maggiore di ospedali. È stato il giorno in cui è balzata agli occhi di tutti l’incapacità del governo di decidere. Una paralisi aggravata dal fatto che lo scoglio è lo scontro con le regioni, il cui rappresentante, Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna, è uno che dovrebbe essere dalla parte del governo visto che è del Pd. Invece no. Bonaccini ha messo nero su bianco in una lettera che gli amministratori locali non vogliono sentire le solite ricette paternalistiche. Chiedono fatti ai quali l’esecutivo non è stato in grado di rispondere.



Il confronto tra la lettera di Bonaccini e la bozza di Dpcm uscita da Palazzo Chigi e più volte rimaneggiata nell’arco della giornata chiarisce le differenze tra le opposte visioni. Il governo vuole un coprifuoco di fatto: chiusura di bar e ristoranti alle 18 e tutta la domenica, chiusura di piscine, palestre, sale gioco, cinema e teatri, didattica a distanza al 75% nelle scuole superiori e una serie di misure “fortemente raccomandate”: non ospitare estranei a casa, non uscire dal proprio comune di residenza, eccetera. Eventuali risarcimenti alle attività danneggiate dalle chiusure saranno decisi più avanti. I problemi della sanità e dei trasporti vengono scaricati sulla scuola e su settori economici che hanno già sofferto, hanno dovuto investire per adeguarsi alle nuove norme e adesso sono ancora costretti a sprangare gli ingressi.



La Conferenza delle regioni invece chiede tutt’altro: bar chiusi alle 20 e ristoranti alle 23, aperture domenicali, libertà per i centri sportivi e di ritrovo con la sola eccezione dei centri commerciali nel fine settimana, didattica a distanza nel 100% delle superiori. Ma soprattutto le regioni pongono due questioni ignorate dal governo: il “ristoro” per le attività economiche colpite dalle chiusure e una svolta nella campagna di tamponi finora fatti a tappeto, mentre – secondo le regioni – dovrebbero essere limitati ai sintomatici e loro familiari per evitare il collasso della sanità.



I palazzi romani vorrebbero usare gli stessi strumenti di marzo, cioè le chiusure progressive e nulla più; invece chi ha il polso della situazione reale vede le difficoltà della gente, soprattutto di chi non ha un lavoro fisso o tutelato, ma anche i drammatici problemi delle strutture di sanità pubblica. A marzo fu evidente la carenza di letti e attrezzature per le terapie intensive, e le regioni dove la medicina del territorio era meglio organizzata resistettero con più efficacia alla diffusione del virus. Oggi fortunatamente abbiamo molti meno ricoveri, anche per casi gravi, ma è andata in crisi proprio quella medicina di base che doveva garantirci protezione. Ospedali, pronto soccorso e ambulatori sono presi d’assalto per un po’ di febbre, per i vaccini antinfluenzali, per i certificati medici (ogni tampone ha bisogno di una prescrizione), per fare i tamponi molecolari e quelli rapidi, e naturalmente devono assistere tutti gli altri malati che reclamano il sacrosanto diritto di non essere lasciati indietro. In molti ospedali sta tornando l’emergenza e al personale si chiedono nuovi sacrifici per turni aggiuntivi, visto che parecchi tra medici e infermieri, il cui numero è già insufficiente, sono costretti a restare a casa.

Sembrava che Giuseppe Conte dovesse annunciare il nuovo giro di vite già ieri sera. Dovrebbe farlo oggi, se il braccio di ferro con le regioni sarà risolto. Il lavoro di mediazione sarà lungo e tortuoso. Resta la fotografia di ieri, con il caos che si sta impadronendo anche degli ambienti che dovrebbero mantenere la lucidità di decidere per il meglio.