L’ultimo braccio di ferro della giornata si è svolto a Villa Grande, la residenza romana di Silvio Berlusconi. Doveva essere un vertice a tre, invece si sono visti soltanto il padrone di casa e Giorgia Meloni.

Sono girate voci che Matteo Salvini si fosse impuntato. Invece il leader leghista ha lasciato l’ultimo round ai due alleati, sarebbe infatti soddisfatto degli accordi raggiunti con la premier “in pectore” sulla strada del nuovo governo: per lui niente Viminale – troppo forti i veti incrociati anche se l’ipotesi non è del tutto tramontata –, ma il ministero delle Infrastrutture che dovrà gestire la ricchissima partita dei cantieri Pnrr. Per quel posto pare avesse puntato i piedi Fabio Rampelli (FdI) che però dovrà fare un passo indietro. Alla Lega andrà la presidenza della Camera, con Riccardo Molinari, mentre Ignazio La Russa sarà presidente del Senato.



Per la vincitrice delle elezioni, l’ultimo grande ostacolo non è Salvini ma il vecchio fondatore di Forza Italia. Berlusconi batte sugli stessi tasti degli inizi: anche se sono passati quasi trent’anni, le priorità non sono cambiate.

A parte la posizione di Licia Ronzulli, che ha risvolti più personalistici – e che potremmo ritrovare alle Pari opportunità –, le richieste “imprescindibili” riguardano il ministero dello Sviluppo economico e quello della Giustizia. Il primo, dove Berlusconi vedrebbe volentieri il fido Antonio Tajani, ha in portafoglio la delega alle comunicazioni e quindi ha competenza su concessioni televisive e frequenze. Il secondo è un vero puntiglio di Berlusconi, che vuole piazzare Elisabetta Casellati o Francesco Paolo Sisto. Ma anche la Meloni ha il suo candidato forte, l’ex magistrato Carlo Nordio, per il quale invece Forza Italia nutre pesanti riserve.



Al ministero chiave dell’Economia prende sempre più corpo l’ipotesi di Giancarlo Giorgetti. Il nome resta coperto, ma a lui conduce una serie di elementi. L’altro giorno la Meloni ha dichiarato che il suo sarebbe stato “il governo più politico della storia della Repubblica”. Il che sta a significare che non ci saranno tecnici. Si tratta di una scelta obbligata dopo la sequenza di “no” ricevuti da Fabio Panetta, Domenico Siniscalco, Dario Scannapieco e Daniele Franco: i tecnici, appunto, si sono chiamati fuori esattamente come ha fatto Mario Draghi, che ha preferito costruire una crisi di governo per lasciare palazzo Chigi e non dover gestire una crisi economica e finanziaria senza precedenti.



A Via XX Settembre, dunque, andrà un politico. E l’unico politico che possa avere il benestare del Quirinale è proprio Giorgetti. Non è un’idea della Meloni: pochi giorni prima del voto aveva twittato che nel suo governo non avrebbero trovato posto ministri come Giorgetti che avevano fatto parte dell’esecutivo Draghi. Invece le toccherà farsi andar bene uno degli uomini più vicini al presidente del Consiglio uscente. Salvini, ma soprattutto Giorgetti che ancora nicchia, non avrebbero mai voluto prendersi l’onere del Mef. Pare però che arrivati a questo punto il vicesegretario della Lega sia l’unico jolly possibile per riempire questa casella. A una condizione: che dare l’Economia al Carroccio, vista l’importanza della poltrona, non sia il pretesto per togliere alla Lega gli altri ministeri concordati.

Quanto agli altri dicasteri, il meno ambito è l’Istruzione: troppi guai con i concorsi, i precari e i sindacati. Agli Esteri non andrà Tajani, ma l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro nel governo Monti e neoeletto con Fratelli d’Italia, ma circola anche il nome di Stefano Pontecorvo, diplomatico dalla lunga esperienza in Pakistan e Afghanistan. Da notare la scomparsa dai radar mediatici di Guido Crosetto, gran consigliere meloniano in campagna elettorale. Ma ora che il gioco si fa duro, Giorgia ha preferito farsi accompagnare a casa Berlusconi da Ignazio La Russa, uomo di tessere e vecchia guardia della fiamma.

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