Domani Draghi spiegherà in conferenza stampa l’ultimo decreto approvato a grandi linee, ma ancora in via di definizione. E sono tre in tre settimane, vicino al record del Conte bis che ne ha emessi quattro in un mese. Non era cominciato così il Governo del “whatever it takes”, allora che cos’è successo? È successo che la pandemia domata in estate (almeno così sembrava) si è riproposta in autunno come già nel 2020 e in forme nuove persino peggiori per rapidità di contagi, anche se meno gravi soprattutto grazie alla diffusione dei vaccini. È successo che la campagna vaccinale partita a passo di carica si è incagliata negli scogli dei no vax, ma non solo: anche di un sistema sanitario che non è stato ristrutturato, tanto meno riformato come promesso, di scuole che non sono state ristrutturate, di trasporti urbani rimasti allo stesso (pietoso) livello precedente, di una telemedicina che non è mai partita, di una rete digitale che in molte parti del Paese rende difficile se non impossibile lo smart working.
Così ci troviamo ancora una volta di fronte ai pronto soccorso intasati, ai letti in corsia, alle sale in terapia intensiva insufficienti, agli hub vaccinali da riaprire, al dilemma tra Dad e scuola in presenza, alle farmacie sotto pressione, ai medici di base in ritirata nient’affatto strategica, alle liti tra Regioni e Governo centrale, ai contrasti nella maggioranza e via di questo passo. Non è come un anno fa, d’accordo, tuttavia ha ragione Luca Ricolfi a dirsi “stupito” nel suo commento sulla Repubblica. C’è preoccupazione sulla tenuta dei partiti, ha scritto il Corriere della Sera. E Il Foglio parla di un “Governo affaticato”. La fatica si legge chiaramente sul volto scavato di Draghi, mentre la confusione si diffonde tra i ministri.
Con il prossimo decreto ci sarà un giro di vite, è inevitabile, anche se si escludono nuovi lockdown. Ricolfi, ancora lui, polemizza con quella che chiama “scommessa liberista”; in realtà si tratta di proteggere una ripresa imprevista per intensità e dinamica, una ripresa non solo economica, ma soprattutto psicologica. È uno stato d’animo fragile e mutevole, il ritorno delle chiusure a macchia di leopardo potrebbe dissolverlo nello spazio di un mattino. E sarebbe un disastro nel breve e nel lungo periodo. Tuttavia quella del Governo è una scelta coraggiosa che potrebbe rivelarsi azzardata. Draghi mesi fa ha detto di seguire la logica del “rischio calcolato”, solo che la variante Omicron è sfuggita a ogni previsione.
Tornano in scena anche i sussidi e i ristori, torna lo sforamento dei limiti di bilancio, torna insomma il “debito cattivo” che spiazza quello buono, quello che dovrebbe servire a consolidare la ripresa e finanziare le riforme. Con la pandemia che imperversa è inevitabile. Il turismo sperava di riprendersi, invece affonda. Le strozzature dell’offerta mettono in crisi l’industria manifatturiera che ha tenuto a galla l’Italia e sta tirando a più non posso la ripresa. Bisognerà capire in quale misura andranno aggiustati i conti pubblici e se, come è prevedibile, verrà fatto al più presto, nel giro di un paio di settimane, prima di lunedì 24 alle ore 15 quando il Parlamento si riunirà in seduta comune. Perché dopo non ci sarà spazio, né tempo per altro che non sia il conclave repubblicano dal quale uscirà un nuovo presidente della Repubblica. I giochi sono aperti, o meglio sono sempre più complicati.
Ci si è è messa persino la Goldman Sachs a sostenere che Draghi si tiri fuori dalla mischia e resti a palazzo Chigi, la pensa così anche Emmanuel Macron, e sono d’accordo in molti tra i partiti italiani per ragioni più contingenti e meno strategiche che non la realizzazione del Pnrr. Ma qualcuno può davvero assicurare che, appena eletto il nuovo inquilino del Quirinale, non parta la corsa alle elezioni anticipate? Tutti, tranne Giorgia Meloni, lo negano, ma molti stanno già caricando le spingarde. Quanto all’argomento che Draghi sia l’unico ad avere l’autorevolezza per partecipare ai vertici europei e garantire l’Italia in un momento così delicato, è contrastato dall’argomento opposto sostenuto da Matteo Renzi, cioè che Draghi al Colle sarebbe non solo il massimo rappresentante internazionale del Paese, visti i poteri che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica, ma anche il punto d’equilibrio in un sistema politico di per sé squilibrato.
C’è un solo modo per far sì che l’elezione del nuovo presidente non apra una crisi di governo: stipulare un accordo ampio tra i partiti della maggioranza. Ma se esistono le condizioni per confermare la grande coalizione all’italiana, allora perché non fare un accordo di legislatura (di nuova legislatura) che comprenda sia il Quirinale sia palazzo Chigi? È questa la domanda alla quale manca una risposta.
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