Ad una manciata di ore dalle elezioni americane il mondo si presenta alla futura amministrazione assai problematico, avvolto in una serie di crisi che si influenzano e rafforzano reciprocamente, col rischio che una mossa sbagliata su un quadrante abbia ripercussioni enormi e impreviste sugli altri. Medio Oriente, Ucraina, Taiwan, BRICS, Russia, Cina, Iran sono i dossier aperti sul tavolo. Ma ognuno di loro a sua volta è un complesso nodo composto di mille pezzi.
Partiamo dalla guerra in Ucraina. Qui la situazione nelle ultime ore è diventata ancora più critica e difficile con l’invio di truppe nordcoreane e l’avanzata di Mosca. I due fatti ci dicono qualcosa della situazione, che la Russia vince, ma che la strategia della guerra di attrito della superiorità numerica di mezzi e uomini ha un prezzo terribile in termini di vite umane e di logoramento della base produttiva. Putin certo si trova ad ottenere quello che voleva, ma è anche in una posizione di estrema debolezza nei confronti dell’amico cinese, che in silenzio ha acquisito un vantaggio strategico impressionante. Pechino ha agito secondo il suo pensiero tradizionale, ha agito il meno possibile, dando il massimo aiuto senza però uscire dalle regole internazionali, non rompendo le sanzioni. In pratica ha trasformato Mosca da amico riluttante a cliente dipendente dal suo aiuto e a cui presenterà il conto. Il massimo risultato col minimo sforzo. D’altronde la Russia ha dimostrato al mondo tutta la sua forza e al tempo stesso la sua debolezza. Ha sbagliato i calcoli, non è riuscita a destituire Zelensky con un colpo di Stato e a sostituirlo con un governo filorusso, e una volta mancato l’iniziale obiettivo non è riuscita all’inizio dei combattimenti a vincere in tempi brevi, infognandosi in una guerra di logoramento che sicuramente vincerà, ma a che prezzo! Si assiste dunque a una crisi internazionale pilotata dagli Stati Uniti, che d’altronde non si aspettavano le iniziali difficoltà russe. Ciò ha permesso a Washington di tenere l’Orso chiuso nel recinto, con l’Europa riallineata e la NATO rafforzata. Adesso però gli USA devono trovare una via di uscita dal conflitto senza perdere l’Ucraina, avendo per giunta spinto la Russia nelle braccia del vero avversario strategico, cioè Pechino.
Cambiamo scenario. Il 7 Ottobre ha aperto un altro fronte di guerra in un’area di crisi tradizionale che gli americani non si aspettavano, facendo deragliare quegli Accordi di Abramo su cui gli americani avevano investito molto, dato che rappresentavano una soluzione strategica geopolitica complessiva per il Medio Oriente allargato, aperta verso l’India, con i molteplici obiettivi di pacificare il conflitto, isolare l’Iran, stringere un’alleanza economico-politica con i Paesi sunniti e ridurre l’influenza della Cina. Adesso, invece, Hamas e l’Iran hanno fatto saltare il banco sbagliando tutti i calcoli, per lo meno nel breve periodo. Israele ha dimostrato di saper riprendersi dallo shock iniziale, sta ricostruendo la sua capacità di deterrenza e ha dimostrato sul campo che la sua forza militare e di intelligence è senza paragoni superiore ai suoi nemici. Ma è una vittoria che si misura sull’immediato, perché ancora parziale sul campo: Hamas è semidistrutta ma continua a combattere e a tenere gli ostaggi dopo quattordici mesi. È una guerra dove ancora manca una soluzione politica al problema dei problemi, il nodo della terra ai palestinesi, da Gaza alla Cisgiordania, dal Libano alla Giordania.
La nuova amministrazione americana dovrà affrontare questo guazzabuglio incancrenito che sembra non offrire spiragli e peggiorare ogni volta, dopo ogni proposito di cessate il fuoco. Guerra senza fine, quella in Medio Oriente, perché con radici teologiche, identitarie, razziali più che politiche e perché sono troppi gli attori nel campo filo-palestinese. Washington dovrà intervenire in modo pesante in un modo o nell’altro, perché non può rischiare che Israele sia continuamente minacciato, ma neppure che il conflitto dilaghi e che l’odio straripi da quei confini diventando una sfida tra Occidente e Paesi musulmani, e nemmeno che l’antisemitismo scorra nelle strade d’Europa e che Israele rimanga isolato. Ma se L’Iran ha sbagliato i calcoli, la Cina raccoglie i frutti, visto il blocco di quella via di comunicazione dall’India al Mediterraneo che doveva essere alternativa alla Via della seta.
Crisi diverse, dunque, apparentemente separate, che si stanno svolgendo però sullo sfondo di un cambiamento epocale, entro una cornice che le tiene unite. Quella di un multipolarismo di fatto che si è via via affermato venendo meno l’unipolarismo americano, il sogno imperiale di Washington partorito dopo la fine della guerra fredda. Ne è riprova il successo crescente dei BRICS, che rappresentano il 45% della popolazione mondiale e il 26% dell’economia globale, come risulta dal vertice di Kazan, in Russia, alla fine di ottobre. Vertice a cui ha partecipato il segretario dell’ONU nonostante una mandato di arresto internazionale contro Putin. Ed ecco che allo stesso tavolo si sono trovati, tra gli altri, Russia, Cina, Turchia, Iran, Egitto, cioè molti di quegli attori che ritroviamo nei conflitti in corso.
Da qui una conclusione. I BRICS non sono in grado di sfidare, come è stato detto, l’egemonia di Washington e dei suoi alleati sul piano militare, economico, finanziario, insomma l’egemonia atlantica. Non hanno nessuna coesione ideologica, troppe le differenze e le debolezze dei Paesi leader, Cina e Russia in testa. Rappresentano “solo” un potente gruppo di interesse che mostra come le vecchie istituzioni di governance globale, dal FMI all’ONU, non funzionino più.
I simboli in politica infatti sono importanti, sono fatti essi stessi, e Kazan ci dice qualcosa. Il mondo non è più unipolare né tantomeno occidentale, e gli Stati Uniti non sono in grado di dettare il loro ordine, perché semplicemente il sistema-mondo non funziona così. Forse non ha mai funzionato così se non nella testa di alcuni circoli ristretti americani. Tra le tanti cose che si possono dire su Trump, che cosa rappresentano il disamore verso la NATO, l’insofferenza verso l’Europa, le parole sulla guerra in Ucraina se non una volontà di cambiare le regole del gioco? Ma è un cambiamento avvolto in una densa nube, perché non è detto né che ci sarà, né che avvenga nei modi annunciati, né che a noi europei e italiani convenga. Certo è che qualsiasi presidente futuro, repubblicano o democratico, dovrà fare i conti con queste sfide globali, perché è il mondo a imporle.
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