Adesso si contano le ore, dopo un mese che ha già coinvolto tutto il mondo nell’incertezza. La “grande partita” che si gioca tra Kamala Harris e Donald Trump per il 47esimo inquilino della Casa Bianca interessa non solo gli americani che votano (più di 50 milioni lo hanno già fatto attraverso l’early voting), ma il mondo intero, per le ripercussioni che l’elezione di Harris o Trump avrebbero nella grande crisi dell’ordine che si sta vivendo.
Le ipotesi degli analisti sono tante. La guerra in Medio Oriente potrebbe arrivare a una svolta decisiva con l’elezione di uno dei due contendenti, così come la guerra in Ucraina, conseguente all’invasione russa, che ormai si avvia a raggiungere i tre anni di combattimenti e un allargamento di partecipazione voluto dai russi con l’aiuto di truppe nordcoreane che già sono impegnate nel Donbass.
Ma il quadro geopolitico è ancora più complicato se si pensa alle minacce della Cina a Taiwan, a una possibile futura battaglia nell’Oceano Pacifico, e alle nuove riunioni dei “Paesi emergenti”, dei Brics, cioè dei Paesi che condividono una condizione economica in via di sviluppo e abbondanti risorse naturali strategiche, ma sopratutto sono caratterizzati da una forte crescita del Pil e del peso nel commercio mondiale.
Il problema è che tali economie si propongono di costituire un sistema commerciale e finanziario attraverso accordi bilaterali non basati sul dollaro e il lancio di una nuova moneta condivisa. È quella che si chiama la de-dollarizzazione, che sconvolgerebbe i rapporti commerciali con una forte caratterizzazione anti-occidentale.
Come risponderà il nuovo presidente americano, sia la Harris o Trump, di fronte a una simile situazione, dopo quella che tanti chiamano la fine dell’egemonia americana, dopo la fine del “secolo americano”?
Tra qualche mese potrebbero concretizzarsi non solo escalation militari dove già si combatte, ma guerre commerciali di portata mondiale di cui finora si parla ancora poco e si conoscono solo le intenzioni. Difficile immaginare tregue improvvise sui vari fronti e improvvise conversioni pacifiste.
E poi, in più, visti i toni della campagna elettorale americana, osservate le crisi dei parlamenti delle democrazie occidentali: quale tipo di sistema democratico emergerà dopo il voto americano? Le risposte possono diventare inquietanti e riservare svolte impensabili, da fine epoca e inizio di un’altra “storia”, contrassegnata anche da un salto tecnologico che è destinato a mutare la vita degli uomini in breve tempo.
Sottolineiamo i toni violenti della campagna elettorale americana e le possibilità di vittoria di uno dei due candidati. Un mese fa era in vantaggio di un punto Kamala Harris, una settimana fa il vantaggio di un punto era passato a Trump. Oggi, i sondaggi sembrano in tilt (“tutto è possibile” rispondono gli esperti). In realtà, il complicato sistema di voto statunitense, in cui si possono raccogliere più voti in tutto il Paese, ma perdere per il meccanismo di voto in alcuni Stati, lascia tutti nell’incertezza più assoluta.
Sotto osservazione ci sono sette Stati dove i sondaggi sono incertissimi e poi c’è il perenne caso della Pennsylvania, dove solo due volte il presidente eletto si era permesso di perdere. Tuttavia l’incertezza dei sondaggi richiama soprattutto la spaccatura (50 a 50) dell’elettorato americano. Un dramma, se si pensa alla radicalizzazione tra democratici e repubblicani.
Ritornando sui toni della campagna elettorale attuale, quello che prevale sono gli insulti pesanti e le visioni politiche contrapposte fino all’ossessione. Senza contare le accuse reciproche.
A giudicare seccamente, si può affermare che oggi le elezioni americane rispecchiano la crisi dell’ordine a livello mondiale. Sono lo specchio di un disaccordo profondo, di una radicalizzazione tra forze politiche che raramente in una grande democrazia si era verificata. La presidenza di Donald Trump dal 2017 al 2021 fu caratterizzata da una svolta conservatrice di destra definita populista, che in realtà si poneva su un versante di r raccogliendo i voti delle media borghesia impoverita e dei ceti più colpiti dalla crisi economica. Ma quello che colpì di più l’opinione pubblica di tutto il mondo fu la chiusura di quella presidenza, con le accuse di Trump di brogli elettorali e un’autentica rivolta degli elettori repubblicani con l’assalto a Capitol Hill, al Campidoglio di Washington, il 6 gennaio 2021. Un’azione che ha screditato il partito repubblicano e i suoi elettori e ha procurato a Trump l’accusa di 34 reati di falsificazione, compresa la spinta alla sommossa contro il Campidoglio.
Dopo le condanne, Trump si ripresenta, con la solita intolleranza e le solite promesse (comprese quelle di brogli in caso di sconfitta). Ma il dramma americano è quello di un Paese spaccato in due, dove la presidenza del democratico Joe Biden non ha rassicurato gli americani, per le sue scelte di politica interna e anche di politica internazionale e poi per il suo invecchiamento, che lo ha portato a incredibili gaffes pubbliche fino a rinunciare alla nuova candidatura, cedendola alla Harris. In definitiva, quello che balza agli occhi è che i democratici non sembrano un’alternativa che può riconciliare politicamente gli Stati Uniti.
Tutto questo si inserisce, oltre alla crisi dell’ordine con le guerre in corso, in una profonda crisi del sistema liberal-democratico. Tutto cominciò in America nel novembre del 2000. Con il contenzioso per il voto in Florida tra Al Gore appunto e George W. Bush. Era cominciata la radicalizzazione tra forze politiche in altri Paesi come l’Italia, ad esempio con “mani pulite”. Ma negli Stati Uniti crebbe a passi da gigante con quell’episodio.
È impressionante adesso vedere le profonde divisioni che si vedono in America; sono presenti in molti Paesi europei e soprattutto nell’Unione Europea. C’è una frase inquietante di Lucio Caracciolo: “Non c’è un’opinione unica dell’Unione Europea, ma ventisette posizioni differenti dei Paesi europei”. Caracciolo usa spesso i paradossi, ma spesso si avvicina alla realtà.
In Francia c’è un governo evanescente e due realtà (destra e sinistra) che non aspettano altro che la “pensione anticipata” di Emmanuel Macron; in Germania i socialdemocratici devono far fronte non tanto alla CDU, ma al ritorno dei neonazisti in diverse zone del Paese e ormai a livello nazionale; in Spagna ci sono ancora le spinte autonomiste della Catalogna e un disastro naturale che ha messo sotto accusa il governo; in Italia si discute da 40 anni sullo scontro tra politica e magistratura, dai tempi del caso Tortora, e c’è una destra che governa anche grazie alla sequenza di errori di una sinistra quasi incapace di fare politica.
A tutto questo si deve aggiungere la scarsa consistenza dell’UE e il continuo assenteismo elettorale in quasi tutti i Paesi democratici.
La crisi dell’ordine, la profonda spaccatura americana sembrano un incubo per il futuro delle democrazia. Chissà se qualcuno riuscirà a comprendere che occorre cambiare rotta. La democrazia è spesso fragile e difenderla è un impegno di tutti i cittadini di uno Stato. Speriamo che non lo si dimentichi in America. Ma il rischio che si vede è grande.
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