Il Governo continua a lavorare alla messa a punto della Legge di bilancio, che, come emerso dal Documento programmatico di bilancio approvato ieri, varrà 23 miliardi di euro. Di questi più di un terzo (8-9 miliardi) è destinato a un intervento per ridurre il carico fiscale, anche se non è chiaro quanti sarebbero utilizzati per rimodulare le aliquote Irpef (agendo in particolare sul “salto” tra le prime due, dal 27% al 38%) e quanti per tagliare il cuneo fiscale che incide sul costo del lavoro delle imprese.



Difficile, invece, che si arrivi già ora a prendere decisioni definitive su Reddito di cittadinanza e pensioni, due temi politicamente molto delicati, viste le posizioni in merito di Movimento 5 Stelle e Lega. Il vero rischio, come ci spiega Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, è che parte degli interventi che si vogliono realizzare venga “mangiata” dalla crescente inflazione.



Professore, ci può fare un esempio di ciò?

Si parla di stanziare 2 miliardi in più all’anno, fino al 2024, al Fondo sanitario nazionale. Nel 2022, quindi, si passerebbe da 122 a 124 miliardi di euro. Stiamo parlando sostanzialmente di un incremento che riesce a malapena a essere un adeguamento all’inflazione, sempre che quest’ultima non salga ancora. Se va bene, all’atto pratico ci troveremo di fronte a saldi invariati: sembra che la pandemia non abbia insegnato nulla sull’importanza delle risorse assegnate alla sanità.

La maggior parte delle risorse verrà destinata alla riduzione delle tasse. Meglio privilegiare una riduzione delle aliquote Irpef o un taglio del costo del lavoro?



Le aliquote Irpef sono elevate e rischiano di esserlo ancora di più se l’inflazione strisciante diventasse più “sostanziosa” ed evidente. I prezzi che scalpitano per poter salire rischiano di ridurre il potere d’acquisto degli italiani. Agire sul cuneo fiscale per ridurre il costo del lavoro per le imprese credo non risolva il vero problema italiano, quello della produttività, che dipende dall’innovazione. Quello che conta veramente, quindi, è finanziare l’innovazione.

Dunque vedrebbe bene l’estensione del piano Transizione 4.0 con crediti di imposta per gli investimenti delle imprese sia in impianti che in ricerca e sviluppo?

Sì, ma dovremmo mettere in campo uno strumento che consenta di incentivare non solo l’innovazione della struttura tecnologica, ma anche della conoscenza presente nelle imprese. Si tratta di due temi che vanno insieme in un momento in cui si parla di transizione digitale: le macchine sono importanti, ma ancora di più chi ci sta dietro, cioè gli uomini, che devono avere le competenze necessarie a questo salto tecnologico che si vuol fare.

Le imprese evidenziano che ridurre il cuneo fiscale aiuterebbe ad assorbire i maggior costi determinati dai rincari delle materie prime…

Guardi, il costo orario del lavoro della Germania o di altri Paesi europei è più elevato del nostro. Quello che conta davvero è il Clup, il Costo del lavoro per unità prodotta, che è collegato alla produttività. Quindi, come dicevamo prima, dato che essa dipende dall’innovazione, occorre spingere su quest’ultima. Ridurre il costo del lavoro può aiutare, ma lo sforzo rischierebbe di essere vanificato dall’aumento della produttività degli altri Paesi competitor.

Per quanto riguarda il fronte della riduzione fiscale meglio allora concentrarsi sull’Irpef?

Sì, anche perché la pressione fiscale in Italia, per quanto il dato sia distorto dal calo del Pil, resta elevata. Credo sia giusto cercare di intervenire sullo “scalone” tra le aliquote del 27% e del 38%, ma è anche vero che una riduzione eccessiva rischierebbe di aumentare lo “scalone” successivo, attualmente presente tra il 38% e il 41%. L’ideale è cercare di rimodulare verso il basso il profilo delle aliquote marginali e anche di quelle medie, senza trascurare un importante dettaglio.

Quale?

Che nel frattempo non bisogna tagliare detrazioni e deduzioni, altrimenti si corre il rischio di dare risorse con una mano e di toglierne con l’altra.

Si parla anche di una revisione del Reddito di cittadinanza. Cosa ne pensa?

Per me il Reddito di cittadinanza è sempre stato un po’ un rebus. Non è sbagliata l’idea in sé che possa aiutare l’incontro tra domanda e offerta sul mercato del lavoro, ma mi sembra che all’atto pratico abbia dimostrato di essere poco efficace. È però stato uno strumento utile nel contrasto alla povertà.

Non varrebbe la pena allora riformarlo in modo che sia come il vecchio Reddito di inclusione affidando la parte di ricerca dell’occupazione per i beneficiari a politiche attive che si spera possano finalmente partire?

Sì, sono pienamente d’accordo. Abbiamo un problema povertà, che ricade sui minori, che è sempre più evidente. Anche perché ci sono redditi bassi che non garantiscono una vita dignitosa, specialmente per i giovani. Il numero dei cosiddetti working poors non è diminuito e rischia anzi di crescere se il rialzo dell’inflazione non si ferma. Ci vorrebbe uno strumento per aiutare i poveri e quanti, pur lavorando, non ce la fanno. Non è bastato vedere crescere le code per ricevere pacchi di generi alimentari a Milano nell’ultimo anno e mezzo?

(Lorenzo Torrisi)

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