Che l’autunno rappresenti per ogni Governo un banco di prova significativo per testare il proprio consenso e la propria tenuta è un dato ormai consolidato nella prassi politica, dal momento che il 15 ottobre inizia la sessione di bilancio ed entro la stessa data il Governo deve presentare il disegno di legge di bilancio al Parlamento per la discussione e approvazione.
Il prossimo autunno si prefigura, tuttavia, alquanto complesso perché l’iter di formazione e di approvazione in sede parlamentare della Legge di bilancio avverrà in un contesto europeo radicalmente rinnovato con l’entrata in vigore della riforma del Patto di stabilità e di crescita. A segnalare i profili di maggiore rischio e di probabile criticità per il nostro Paese dal punto di vista dell’impatto economico e finanziario di queste nuove misure europee (si prevede che l’incidenza del debito pubblico aumenterà di nuovo al 141,7% del Pil entro il 2025) è stata la Corte dei conti, la quale nella relazione depositata il 1° agosto dalla Sezione Autonomie sulla gestione finanziaria 2020-2023 di Regioni e Province autonome ha tracciato un quadro della finanza pubblica caratterizzato da stringenti vincoli e che sarà impattato significativamente e inevitabilmente dall’entrata in vigore del nuovo Patto di stabilità e di crescita.
«Le previsioni della Commissione europea per il 2024-2025 sono più contenute rispetto a quelle del Def 2024, con una crescita media annua dell’1%. […] I risultati di finanza pubblica 2023 certificati dall’Istat mostrano un maggiore disavanzo del saldo primario e dell’indebitamento netto rispetto a quanto previsto nel Def 2024, principalmente a causa della maggiore spesa per i crediti d’imposta del “Superbonus”. […] La riattivazione del Patto di stabilità e crescita comporterà una manovra restrittiva dal 2025 al 2027, con effetti significativi sul sistema multilivello».
La sospensione per i Paesi membri dell’Ue delle condizionalità previste del Patto di stabilità e di crescita con l’attivazione della clausola di salvaguardia in costanza della crisi pandemica 2020-2023, che ha permesso un’espansione del deficit per sostenere famiglie e imprese durante la pandemia, finanziata attraverso l’aumento del debito pubblico, è terminata a partire dal 1° gennaio 2024 con la riforma del Patto, grazie all’accordo raggiunto a livello politico nel febbraio scorso tra la Commissione, il Consiglio e il Parlamento.
L’accordo riforma sostanzialmente il vecchio impianto, intervenendo sulla modifica dei meccanismi di monitoraggio e le modalità di programmazione della politica di bilancio. Le nuove regole richiedono ai Paesi con debito superiore al 60%, o deficit superiore al 3%, di approvare piani finanziari per ridurre il deficit. Questo comporterà una riduzione media annua strutturale dello 0,5%. Con la riforma del Patto di stabilità e di crescita dell’Ue, l’Italia è tenuta gradualmente a diminuire il deficit, che dovrebbe scendere sotto il 3% del Pil solo a partire dal 2027.
L’Italia, come altri sette Paesi (Belgio, Francia, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia, che si aggiungono alla Romania, per cui la stessa procedura è stata avviata nel 2020), ha presentato nel 2023 un deficit superiore al 3% in rapporto al Pil (7,2%). A giugno scorso la Commissione ha deciso quindi di aprire la procedura per deficit eccessivo per l’Italia. Il Governo dovrà fare un aggiustamento minimo dello 0,5% annuo in termini strutturali fino a conseguire l’obiettivo di un deficit in rapporto al Pil inferiore al 3%. Il rapporto deficit/Pil è infatti previsto al 4,4% quest’anno e al 3,9% nel 2025. Sulla base di queste stime si ipotizza che l’Italia potrebbe uscire dalla procedura nel 2027 (come anche dichiarato nel Documento di economia e finanza).
In questo scenario, la riattivazione di più stringenti condizionalità sotto il profilo economico-finanziario, secondo i giudici contabili «potrebbe avere un impatto significativo in particolare sul settore sanitario». La Corte sottolinea come le «risorse assegnate alle Regioni, pur aumentando, non hanno compensato l’aumento dei prezzi, riducendo la spesa sanitaria rispetto al Pil. Una manovra restrittiva potrebbe aggravare queste criticità, soprattutto nel settore sanitario, dove il diritto alla salute prevale sull’equilibrio di bilancio». Infine, i giudici contabili rilevano che nel «2023-2027, la spesa per le principali prestazioni di protezione sociale in Italia (sanitarie, assistenziali e previdenziali) rimarrà sostanzialmente stabile in termini di Pil. Tuttavia, la spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico aumenterà significativamente, con un’incidenza sul Pil in crescita dal 3,8% al 4,4%».
Inoltre, la Corte evidenzia che le «prestazioni erogate attraverso trasferimenti monetari, come pensioni e altre prestazioni sociali, si manterranno attorno al 20% del Pil, con una leggera riduzione dal 20,4% (nel 2023) al 20,3% (nel 2027). Le spese sanitarie, costituite quasi esclusivamente da prestazioni in natura, nel medesimo arco temporale, scenderanno dal 6,3% al 6,2% del Pil».
Il settore della sanità nel periodo di vigenza della clausola di salvaguardia, ovvero di sospensione del Patto di stabilità e di crescita dell’Ue non ha, infatti, beneficiato di investimenti significativi e importanti che sono stati destinati prevalentemente ad altri settori e pertanto, come rileva la Corte, «le risorse sanitarie assegnate alle Regioni, pur aumentando, non hanno compensato l’aumento dei prezzi, riducendo la spesa sanitaria rispetto al Pil».
Dunque, si potrebbe prospettare lo scenario in cui l’impatto delle nuove condizionalità europee del Patto di stabilità e di crescita, impattando anche sul finanziamento del sistema sanitario pubblico, fiaccato in questo ultimo decennio da sottrazioni di risorse e che mostra crepe sempre più evidenti (a oggi sono otto le Regioni che non riescono a garantire almeno i livelli minimi di assistenza) contribuisca ad aggravare la tendenza della spesa pubblica al disallineamento rispetto alla crescita, peraltro piuttosto contenuta, del Pil.
In questo quadro lo stato di emergenza del servizio sanitario pubblico è segnalato dalla messa in discussione di un carattere intrinseco e fondante del servizio stesso ovvero l’universalità nell’accesso, una conquista di civiltà, di equità sociale, di solidarietà che il nostro Paese aveva guadagnato fin dall’introduzione del Servizio sanitario nazionale con la l. n. 833/1978 che portava la firma dell’allora ministro della Sanità, la democristiana Tina Anselmi. Il diritto alla salute che nel 1978 è stato sancito come diritto un universale e personale inviolabile e garantito all’art. 32 della Costituzione, nell’elaborazione giurisprudenziale è stato per un determinato periodo (soprattutto a seguito della crisi del 2008 dei debiti sovrani e successivamente con la costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio all’art. 81 Cost. scaturente dall’approvazione del c.d. Fiscal Compact in sede europea) riqualificato come diritto da bilanciare con altri diritti costituzionali e ora come diritto finanziariamente condizionato, adombrando l’eventualità di subordinarne l’effettiva tutela all’effettiva disponibilità di risorse finanziarie pubbliche.
La pluralità delle decisioni che assistono le politiche pubbliche in materia sanitaria induce a ritenere preferibile inquadrare il diritto alla salute come un diritto “costituzionalmente orientato”, piuttosto che un diritto finanziariamente condizionato, fermo restando universalità, uguaglianza ed equità quali caratteri indefettibili del servizio sanitario pubblico. In questo quadro si va affermando pertanto una concezione del diritto alla salute determinato da una moltitudine di fattori che sia inserito in un quadro di sostenibilità complessiva. La giurisprudenza costituzionale ha introdotto la qualifica per la spesa sanitaria di spesa “costituzionalmente necessaria”, distinguendo la spesa concernente il diritto alla salute, il solo qualificato come diritto fondamentale dalla Costituzione, dalle altre spese che non sono costituzionalmente necessarie (Corte cost. sentenza n. 169/2017).
Così la Consulta ha potuto ribadire e sviluppare il principio in base al quale è «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (Corte cost. sentenza n. 275/2016), dimostrando anche le conseguenti implicazioni. La spesa relativa alla sanità, collegata direttamente ad assicurare il diritto alla salute, assumendo una qualifica così rilevante nella ricostruzione della giurisprudenza costituzionale, è divenuta oggetto di una primaria considerazione nella valutazione della legittimità dei bilanciamenti con altri principi costituzionalmente garantiti operati dal legislatore.
(1- continua)
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