Che cosa ci aspetta nelle prossime settimane, quando il Governo dovrà presentare la Lgge di bilancio, le agenzie di rating daranno le pagelle all’Italia e bisogna mettere nero su bianco il nuovo Patto di stabilità? Sappiamo già che sarà una finanziaria spartana, vien da dire austera, ma l’austerità non fa parte del vocabolario di questo Governo. E sappiamo che la spesa pubblica verrà coperta da titoli di stato, cioè sarà a debito. Il deficit pubblico quest’anno è stimato in 108,6 miliardi di euro (5,3% del Pil) e 92 miliardi l’anno prossimo (4,3%). Il debito attuale ammonta a 2.858 miliardi di euro, coperto per 2.388 miliardi da titoli di stato. Aggiungendo il disavanzo previsto si arriva a quota tremila di qui ia prossimi dodici mesi, sempre coperto da nuovi Btp.



Attenti alla Germania? No, attenti agli Stati Uniti. L’insidia maggiore al debito italiano questa volta non viene tanto da Berlino, ma soprattutto da Washington. Per capirlo dobbiamo addentarci purtroppo in una selva di numeri. Giancarlo Giorgetti ha tirato un sospiro di sollievo perché la seconda emissione del Btp Valore è andata bene, il Tesoro ha raccolto 17,190 miliardi di euro, quasi quanto a giugno (18,191 miliardi) e poco meno del Btp Italia di marzo (18,5 miliardi). In tutto sono entrati in cassa 43,9 miliardi di euro per coprire altrettanti miliardi di debito.



La maggior parte dei titoli di stato è andata ai piccoli risparmiatori, perché la Banca centrale europea ha smesso di comprare e sta, al contrario, riducendo il proprio portafoglio. Quello che per loro è un guadagno per lo Stato è un costo, e questa è l’altra faccia della medaglia. I tassi del Btp Valore sono del 4,1% a tre anni che sale al 4,5% se viene conservato per altri due anni. Il rendimento medio dei bond decennali è più alto, nella seduta di venerdì ha toccato il 5% per assestarsi al 4,92%, lo spread con il Bund decennale tedesco è a 204. Sono cifre alle quali guardano con estrema attenzione del agenzie di rating che si apprestano a compilare la pagella della sostenibilità.



Comincerà Standard & Poor’s venerdì 20, poi Fitch il 10 novembre e Moody’s il 17. il ministro dell’Economia ha avuto degli incontri con chi segue il caso Italia “per dimostrare la credibilità e solidità del Paese”, scrive un comunicato del Mef. Sia chiaro, siamo ben lontani dal novembre 2011 quando lo spread balzò a 573 punti e il rendimento decennale al 7,42%. Ma l’Italia ha comunque un rating molto basso (BBB sperando che sia confermato) e si muove comunque in controtendenza: il tasso del Bund tedesco è sceso di 4 punti base al 2,87%, in calo anche il decennale francese che si è attestato al 3,45% (-2 punti base), quello spagnolo al 3,99% (-1 punto) e quello greco al 4,31% (-3 punti). E fare peggio della repubblica ellenica non può che preoccupare.

Il maggior paragone, tuttavia, va fatto con gli Stati Uniti. I titoli di stato americani a dieci anni viaggiano attorno al 4,89%, quelli a tre anni sono già al 5,15% mentre il lunghissimo termine (30 anni) dà un rendimento superiore al 5% per la prima volta dal 2007, cioè alla vigila del grande crac. Il debito federale supera i 32 mila miliardi di dollari, dieci volte quello italiano. E anche il Tesoro degli Stati Uniti si rivolge sempre più ai compratori al dettaglio, le grandi banche centrali, infatti, sono già piene e stanno riducendo gli acquisti a cominciare da quella cinese: l’anno scorso deteneva debito americano per mille miliardi di dollari, ora scesi a 800 miliardi, quella giapponese ne ha comprati meno per 100 miliardi di dollari.

Tutti i Paesi sono super indebitati e tutti competono non solo sui loro mercati interni, ma sul mercato mondiale. La Francia sfiora i tremila miliardi di euro, la Germania a fine 2022 era già oltre i 2.300 miliardi di euro, il Regno Unito ha superato i 2.500 miliardi di sterline (quindi vicino ai 3.000 miliardi di euro). È vero che in rapporto al Pil Parigi è attorno al 100%, mentre sia Berlino che Londra sono sotto il 60%, tuttavia nella grande riffa dei bond conta la quantità. Ecco perché la variabile determinante nel nuovo Patto di stabilità sarà il debito e su questo si concentra un confronto che sta diventano un vero e braccio di ferro.

La Germania vuole che sia fissata una percentuale di taglio del debito anno dopo anno, la sua proposta è l’1%. C’è una mediazione spagnola che non dispiace all’Italia: una riduzione media annua minima del debito, per un periodo di 14-17 anni, se il rapporto con il Pil non viene portato o mantenuto al di sotto del 60% entro la fine dell’orizzonte di proiezione; o una clausola secondo la quale lo sforzo fiscale viene distribuito lungo l’intero periodo di aggiustamento per evitare che i Governi concentrino tutto alla fine, scaricando gli oneri sulla legislatura successiva.

Alle riforme e agli investimenti che favoriscono la crescita viene riconosciuto un ruolo fondamentale nel garantire la sostenibilità a lungo termine. I Paesi potranno estendere il periodo di aggiustamento da quattro a sette anni come già previsto dalla proposta della Commissione Ue, ma i progressi nell’attuazione degli impegni di riforma e investimento dovranno essere monitorati e se non saranno rispettati l’estensione salterà. I tedeschi non sono d’accordo, ma il negoziato è in corso.

Accettare una tagliola sul debito significa chiudere in una rigida gabbia la politica economica italiana. Il gioco si fa duro, vedremo se e come i duri entreranno in gioco.

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