Netanyahu ripete che la risposta di Israele a Hezbollah, dopo l’attacco di sabato sulle alture del Golan nel quale sono stati uccisi 12 bambini di un villaggio druso, sarà dura. E dalla Farnesina arriva l’invito agli italiani che si trovano in Libano a lasciare il Paese. Si tratterebbe di tremila persone. Lo stesso appello è arrivato anche dalla Germania. Le comunità straniere presenti in Libano, d’altra parte, sono moltissime, 38 in tutto. Anche l’evacuazione di queste persone potrebbe costituire un problema, in una situazione peggiore di quella di Kabul, quando gli americani decisero di lasciare l’Afghanistan.
Oltre allo spettro della guerra totale che aleggia sul Libano da tempo, anche l’abbandono del Paese da parte degli stranieri, spiega Maurizio Boni, generale di Corpo d’armata e opinionista di Analisi Difesa, si annuncia come un’operazione complessa. Il Paese dei cedri, per la complessità della sua società, in cui sono rappresentate, ad esempio, diverse milizie e confessioni religiose, è forse il teatro peggiore da cui far evacuare la gente. Lo è stato nel 2006, in occasione di un’altra guerra Israele-Libano, e potrebbe esserlo anche in questa occasione.
Perché un’eventuale evacuazione di tutti gli stranieri presenti in Libano sarebbe un grosso problema da risolvere?
Il Libano è una situazione tra le più complesse dal punto di vista sociale, politico ed economico. Da anni vive in un equilibrio precario, soprattutto dopo la crisi siriana, che ha portato nel Paese più di due milioni di persone. In un Paese con 7 milioni di persone, non sono poche, tenendo conto che a queste si aggiungono 250 mila lavoratori dall’Etiopia e poi dalle Filippine, dal Bangladesh e dallo Sri Lanka. Una situazione veramente complessa. E non è finita: ci sono altre comunità di stranieri, occidentali compresi.
Ci sono esperienze passate che possono insegnare qualcosa sulla crisi attuale?
La situazione fotocopia di quella attuale è stata la crisi del 2006. Israele si mosse sempre in risposta a Hezbollah. Allora c’erano 38 comunità straniere, 300 mila persone da evacuare sempre in estate. In luglio e agosto 2013 siamo andati vicini all’acuirsi della crisi siriana, con episodi di armi chimiche in Siria: si rischiò un altro collasso. Ora torniamo a uno scenario simile. Diciotto anni fa gli stranieri furono trasferiti nei loro Paesi di origine principalmente attraverso Cipro e Turchia. Gli italiani evacuati furono 350. Per dare un riferimento, l’evacuazione di Kabul interessò 124 mila persone evacuate e vedeva 23 nazioni coinvolte. La complessità del Libano, però, fa considerare l’esperienza di Kabul quasi una passeggiata: ci sono tantissime nazioni coinvolte e ogni governo mette in atto una propria operazione di evacuazione. Coordinarsi è difficilissimo, anche perché i punti di accesso aerei e navali sono limitati.
Kabul, insomma, non regge proprio il confronto?
I numeri in gioco sono molti di più rispetto all’Afghanistan, poi si parla di molte più località interessate, non solo Beirut, ma anche centri costieri e aeroporti secondari. Tutto il Paese potrebbe essere interessato da un’evacuazione di dimensioni bibliche. E quando parliamo degli italiani escludiamo i militari dell’Unifil che seguono procedure loro.
Quali sono gli altri fattori che rendono la situazione del Libano così speciale?
Queste operazioni si chiamano NEO, Non-combatant Evacuation Operation, e sono titolato a parlarne perché ho comandato l’unità Italian Joint Force Headquarters, titolare della pianificazione delle evacuazioni all’estero, che agisce in stretta collaborazione con la Farnesina. Per due anni e mezzo ho coordinato tutte le operazioni più importanti, come nel 2013 quando mi sono occupato della task force che ha agito nel Sud Sudan. Il Libano, fra tutte le operazioni, è la più complessa, perché nel Paese ci sono molti attori di cui tenere conto e perché Israele controlla in modo serrato tutti gli accessi marittimi e aerei. Basti pensare che, sempre nel 2006, pianificando l’operazione, scoprimmo l’esistenza di moltissimi cittadini con doppia cittadinanza: Sri Lanka 80 mila persone, Canada 50 mila, Australia e USA 25 mila, Gran Bretagna 22 mila. Un altro elemento poco conosciuto che complicò la situazione.
Ma non c’è modo di coordinare gli interventi a livello internazionale?
C’è un organismo cui aderiscono 18 Paesi, il NEO Coordination Group. Ogni anno queste nazioni si incontrano e discutono i piani di evacuazione degli scenari dove è più possibile che si debba entrare in azione. Il Libano è sempre al centro delle discussioni. Il problema è sempre che ogni nazione conduce l’evacuazione per conto suo. La responsabilità di avviarla è dell’autorità diplomatica. Se lo Stato non è in grado di garantire l’operazione, viene chiamata la componente militare che garantisce la sicurezza, il trasporto strategico, l’assistenza sanitaria e logistica. Per questo la pianificazione avviene in collaborazione con l’unità della crisi.
In Libano con quanti interlocutori bisogna parlare? Non c’è un presidente, il governo è debole, ci sono gli Hezbollah, quante sono le variabili di cui tenere conto?
Ci sono elementi di coordinamento con le forze armate libanesi e con gli israeliani, perché senza il loro consenso non si può accedere a porti e aeroporti. In tutto questo l’isola di Cipro svolge un ruolo fondamentale, soprattutto la parte greca. Nel 2006 è stato il punto intermedio da cui far ripartire gli sfollati verso la madrepatria. Difficile rimpatriare direttamente le persone, ci deve essere un safe place, un posto sicuro dove stazionare 24/48 ore al massimo. Cipro fu invasa dagli sfollati del Libano, che arrivarono anche con barche private dovendo gestire quasi una crisi umanitaria. Da allora la Protezione Civile si è organizzata e ogni anno tiene una esercitazione riproducendo uno scenario simile a quello che potrebbe accadere. Anche stavolta Cipro rimarrà un punto di riferimento essenziale.
Il Libano deve essere evacuato subito?
A gennaio già diversi Paesi avevano invitato i loro concittadini a considerare l’opportunità di lasciare il Paese. L’evacuazione, però, non può mai essere forzata, ogni cittadino deve scegliere di andarsene. Nella storia ci sono state persone che hanno voluto rimanere, anche durante la crisi siriana, succede specialmente tra i religiosi e il personale diplomatico. Il Libano, comunque, è il posto peggiore per evacuare la gente: ho pianificato evacuazioni in Libia, Giordania, Repubblica Centrafricana, questa è sicuramente la più complessa.
Stavolta sarà più difficile trovare altri Paesi di appoggio per fare arrivare gli sfollati?
Per via terrestre è pericoloso: della sicurezza degli itinerari devono preoccuparsi le forze armate libanesi, ma se ci si coordina in anticipo è possibile che militari di altri Paesi contribuiscano a garantire la sicurezza. È sempre molto difficile, anche perché nelle forze armate libanesi è molto presente Hezbollah.
L’evacuazione materialmente come si svolge?
Vengono indicati dei punti di raccolta organizzati dall’autorità diplomatica dai quali si raggiungono i luoghi predestinati: aeroporti, porti o spiagge dove i mezzi aerei e navali possono operare il recupero. Nel 2006 ci furono mezzi da sbarco americani usati per evitare l’inconveniente dell’intasamento dei porti. Gli israeliani comunque eserciteranno il controllo su tutto quello che uscirà dal Libano. Se gli israeliani inizieranno le operazioni militari, imporranno il blocco aereo, navale e terrestre: ora stanno valutando se hanno le risorse per mantenere i due fronti, a Gaza e in Libano.
(Paolo Rossetti)
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